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Damian Lillard e il prezzo della fedeltà, tra promesse a Portland e frustrazione crescente

Una storia di fedeltà, ma anche di crescente insoddisfazioni, richieste mal celate e repentini dietro-front. Vale più le lealtà o il successo?
A cura di Luca Mazzella
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Vincere è importante. Qualcuno direbbe, anzi, che è l'unica cosa che conta. In uno sport pur sempre di squadra ma in cui le superstar cannibalizzano attenzioni, pressioni, trofei e gloria per poi centrifugare ulteriormente questa logica nella cultura sportiva americana "anello-centrica", quella per cui chi porta a casa il titolo passa alla storia e degli sconfitti, finanche quelli giunti all'ultimo appuntamento, non resta traccia, la differenza tra chi trionfa e chi cade vale molto più di una coppa, una medaglia, un nome inserito nell'albo d'oro.

E in quanto tematica che incide e in modo importante sul giudizio dei più grandi atleti – basti pensare agli Stockton, ai Malone, ai Barkley o, esempio tra gli esempi, al record negativo alle Finals di un 4 volte campione NBA come LeBron James – la "rings culture", la cultura degli anelli come unica unità di misura della grandezza dei giocatori, ha storicamente cambiato squadre, inerzie, stagioni intere. Portando alle più avventate delle decisioni in nome di una vittoria che sembra l'unica assoluzione possibile per essere poi invitati al tavolo dei giganti.

È per inseguire il tanto agognato anello NBA che a Boston, ormai più di un decennio fa, Kevin Garnett e Ray Allen si sono uniti a Paul Pierce. L'anello è il motivo per cui LeBron James ha lasciato i Cavs per Miami e Kevin Durant i Thunder per i Golden State Warriors: se vuoi finire sui libri di storia, devi arrivare alla vetta. Storture tutte americane che, senza scomodare l'estremo opposto riducendosi al decoubertiano l'importante è partecipare, ingabbiano con irrisoria facilità giocatori su giocatori nella narrativa dei perdenti oltre ogni scusante. Da qui, le scelte più impopolari per inserire o provare a inserire il proprio nome nel libro di chi ce l'ha fatta.

Damian Lillard (era) è differente

C'è chi, tuttavia, negli anni in cui ha visto sorgere e sfaldarsi super-team su super-team come unica via possibile per ottenere il successo, ha optato in maniera risoluta e ostinata per la direzione contraria. Quella più difficile, romantica, anti-convenzionale nell'epoca in cui il professionista ascolta prima le ambizioni, e poi cuore. Fedeltà alla squadra che ti ha lanciato, disprezzo per lo scientifico ammassamento di talento predeterminato a tavolino, lealtà oltre ogni tentazione di mercato, sogno e ambizione di arrivare alla vetta con la canotta di cui sei diventato il volto più rappresentativo. Ma non tutto oro è quel che luccica e i sogni, quando troppo lontani e sognati troppo a lungo, sono destinati a non diventare mai realtà. E quindi gli anni passano, le soddisfazioni sono sempre meno, e quel vortice culturale dello sport americano, etichetta dopo etichetta, si prepara ad aspirare le sue vittime preferite nel serbatoio di chi viene dimenticato.

Basterebbero poche ore, praticamente una giornata o forse anche meno, passate sul web ad aggiornare continuamente il suo nome e cognome su Google, per comprendere come la parabola del nativo di Oakland calzi in maniera perfetta in tutta la dinamica finora esposta. Straordinario solista, giocatore clutch, tiratore ma più in generale scorer letale, Dame ha creato una porzione dello spazio-tempo a lui dedicata, il "Lillard-Time", in cui non conta il difensore, non conta di che partita si tratta, non conta la posta in palio: se arrivi ad avere tra le mani la palla decisiva a pochi secondi dalla fine, entri nella sua zona, dove la palla scotta ma lui non si tira indietro, prendendosi la responsabilità di trascinare i compagni sulle spalle.

Negli ultimi 10 anni Lillard si è consacrato come uno dei giocatori più amati della lega e vedere al contempo incroci di mercato atti a rinforzare in maniera esponenziale le concorrenti dei suoi Portland Trail Blazers fino a creare un gap che prima insormontabile oggi appare impossibile, non ha fatto altro che alimentare il suo senso di appartenenza, la sua voglia di consacrarsi, ma solo con la franchigia che lo ha scelto, accudito, cresciuto e portato alla ribalta, il suo disprezzo verso i cd. Superteam.

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Un odio mai nascosto e che più volte è stato accompagnato da dichiarazioni di fedeltà totale ai Portland Trail Blazers. Che nel frattempo, però, tra scelte scellerate di mercato e un margine via via ridotto per operare proprio a causa dei ricchi compensi garantiti al loro uomo franchigia, non sono mai stati nelle reali condizioni di sognare il Larry O'Brien Trophy. E così, stagione dopo stagione, quegli orgogliosi motti di fedeltà e quella diversità sbandierata ai quattro venti sono diventati sempre meno insistenti, sempre più sussurrati a bassa voce, sempre più di facciata e volti a nascondere una latente frustrazione nel linguaggio del corpo. Che spesso nella sua decadente inerzia viveva comunque dei sussulti che un fenomeno, palla tra le mani e partita in bilico, regalava ai suoi tifosi e più in generale a tutta la lega.

Al grido di aiuto seguiva risposta di Portland, ma al tentativo di questi ultimi di mescolare le carte seguiva il veemente ruggito dell'uomo franchigia che vuole sì i rinforzi, vuole sì competere, ma scegliendo di chi privarsi e chi tenere in squadra. Un controllo sulla gestione dei mercati che, da parte di chi occupa praticamente 1/3 del monte salari, è tanto scontato quanto dannoso. E così le ingerenze di Dame sulle scelte del GM (oggi ex a seguito di licenziamento) dei Trail Blazers hanno finito per relegare ad anni e anni di immobilismo la franchigia, incapace di allestire il supporting cast necessario per issarsi al ruolo di vera candidata al titolo e non sorpresa estemporanea di post-season.

Con la differenza però che, nell'ultimo anno, quelle che erano le orgogliose manifestazioni di appartenenza di Lillard si sono iniziate ad alternare al malcontento, quasi mai paventato in modo diretto ma fatto riferire da insider vicini al giocatore (qualcuno ha detto Chris Haynes?), per una obiettiva incapacità di salire di livello. Le frecciate ai super-team sono diventate sempre meno e le voci di una volontà di lasciare l'Oregon si sono intensificate, ma ogni qualvolta un microfono e una telecamera hanno interpellato il diretto interessato a riguardo, nessuna delle risposte che si attendevano è uscita dalla bocca di Lillard. Che pur bruciando dentro ha preferito, sempre e comunque, mantenere la linea della fedeltà, dell'appartenenza, della diversità rispetto ai ring-chasers. 

Fino a diventare la parodia di se stesso, prevedibile nelle sue uscite che ormai seguono il flusso logico della fedeltà-malcontento-richiesta-veto alla cessione del giocatore x-fedeltà, ciclicamente riproposto. Con l'aggiunta, questa recente, di pretese anche economiche via via crescenti, con un biennale da 107 milioni a partire dal 2025 che sarebbe stato chiesto – a integrazione del rinnovo quadriennale firmato nel 2019 per la modifica cifra totale di 196 milioni – proprio poche ore dopo la solita indiscrezione sulla volontà di essere scambiato. Il tutto mentre CJ è ai box e non si sa per quanto a causa del tristemente noto problema al polmone, l'ex GM Neil Olshey licenziato dopo indagini interne sul suo operato, e la squadra che ha pure cambiato allenatore (Chauncey Billups al posto di Terry Stotts) in estate è ancora nei bassifondi della lega per numeri difensivi, coerentemente pessimi da più stagioni.

With or without you

Un disastro che ha come unica via d'uscita la rivoluzione, totale, e senza mezze misure: Lillard al centro del villaggio o Lillard scambiato.  Dame, che negli ultimi mesi si è ben guardato dall'arrivare al muro contro muro mantenendo sempre e comunque la linea della lealtà, ma che secondo la logica che tanto ha disprezzato negli anni rischia – si fa per dire – di finire al fianco di una nuova superstar del suo stesso livello con la missione anello. Un anello che potrebbe avere un retrogusto amaro per le dinamiche, e che solleverebbe una volta di più il dubbio su quanto la lealtà, in fin dei conti, sia autentica e soprattutto remunerativa in termini squisitamente sportivi.

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