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Cosa deve fare Nicolò Melli per giocare ai Pelicans?

Dopo l’incoraggiante prestazione contro i Boston Celtics di domenica e le belle parole spese da Zion Williamson nei suoi confronti, per Nicolò Melli sono arrivate altre due partite senza mai scendere in campo. Una mancanza di fiducia di Van Gundy che da inizio stagione sta mettendo a dura prova le ambizioni dell’azzuro.
A cura di Luca Mazzella
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Dopo un mese di febbraio senza praticamente vedere mai il campo, fatta eccezione per pochi sprazzi di garbage time (tempo-spazzatura, letteralmente, vale a dire la fase di gioco ininfluente ai fini di un risultato già acquisito, vittoria o sconfitta che sia), nella partita di domenica scorsa contro i Boston Celtics il nostro Nicolò Melli è stato finalmente scongelato dal coach dei New Orleans Pelicans Stan Van Gundy, che in una mossa dettata dalla pura disperazione è riuscito a rimontare uno svantaggio in doppia cifra grazie all'energia e alla difesa della second-unit. Il tutto con Melli, appunto, in campo per gran parte dell'ultimo quarto e i 5 minuti di supplementari. Nico ha chiuso con 3 punti (ma un pessimo 1/7 al tiro), due palle recuperate e 3 rimbalzi, ma soprattutto con un plus/minus di +18: con lui in campo la squadra ha battuto di 18 punti gli avversari. Un risultato straordinario se si pensa alla bassissima considerazione che il coach ex Detroit Pistons ha avuto finora dell'azzurro, accordatosi lo scorso anno coi Pelicans con la prospettiva tecnica di poter spalleggiare o comunque aiutare lo sviluppo di Zion Williamson grazie ad alcune caratteristiche complementari alla prima scelta, ma finito man mano nel dimenticatoio con il cambio di allenatore. Ci eravamo cascati tutti, lui per primo, sperando che l'incoraggiante prestazione potesse rappresentare un nuovo inizio. In realtà, nelle successive due gare, Melli è tornato stabilmente ad occupare la panchina per tutti i 48 minuti a disposizione.

C'è spazio per Melli nei nuovi Pelicans?

In una squadra che può vantare a roster The Next Big Thing, Zion Williamson, giovane il cui impatto sulla lega nelle prime 50 partite giocate (lo scorso anno ha saltato 2/3 di stagione per infortunio) è stato devastante, ogni giocatore deve praticamente riuscirsi a coniugare nel migliore dei modi con il gioco del mancino proveniente da Duke, il quale grazie a una fisicità fuori dal comune e a una potenza nella parte superiore del corpo senza eguali, ha fatto del pitturato la sua terra di conquista. Una franchigia con questo mantra cercherebbe il più possibile dei tiratori per "aprire" il campo e consentire alla sua star di attaccare con veemenza il canestro, forte di una difesa inevitabilmente concentrata su chi è posizionato sul perimetro e può far male da lì. NOLA invece ha fatto tutt'altro, e a una squadra senza tiratori autentici (fatta eccezione per un J.J. Redick che sembra aver perso il suo smalto) ha aggiunto, via trade, prima Eric Bledsoe e poi Steven Adams, ovvero un pessimo tiratore e un lungo "vecchio-stampo" e ben lontano dagli unicorni di cui oggi l'NBA pullula. In queste condizioni, prevedere fisiologiche difficoltà di spaziature in una squadra che vanta già Lonzo Ball e Brandon Ingram, giocatori dal talento indubbio ma ben lontani dall'essere considerati pericolosi dalla distanza, era quasi scontato. E infatti, nonostante le grandi aspettative al via della regular season, i Pelicans in questo momento sono ancora distanti dalla zona Playoffs e mostrano una allarmante discontinuità nei risultati.

Nicolò Melli, che era stato firmato nell'estate 2019 per diventare quel lungo (pur sempre di rotazione e non certo titolare) in grado di allargare esponenzialmente gli spazi per Williamson, attirare un difensore a 8-9 metri dal canestro e lasciar sprigionare tutta l'energia del compagno in penetrazione, è cascato in pieno nel vortice di questa rivoluzione anacronistica considerato il basket odierno. Fino a essere del tutto dimenticato.

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Quale futuro?

Nicolò è atterrato in America da affermatissimo giocatore di Eurolega, che ha vinto con i turchi del Fenerbahce, e dopo una gavetta che da Reggio Emilia prima e Milano poi lo ha portato in Germania, dove è definitivamente maturato sotto la guida di Andrea Trinchieri. La scelta di cimentarsi con il basket americano è stata ponderata e assolutamente fondata nella misura in cui lui stesso era consapevole di dover lavorare duramente per guadagnarsi uno spazio che nella migliore delle ipotesi sarebbe falso un onesto posto in rotazione da ottavo-nono giocatore di un roster di una squadra di medio-livello. Alla partita contro Boston, che avrebbe dovuto e potuto rappresentare una piccola svolta, sono seguiti gli 0 secondi contro Detroit e stanotte contro i Bucks. Il che stona con le dichiarazioni non solo di Van Gundy , che ha parlato di lui come un giocatore da rispettare per il tipo di atteggiamento che ha negli allenamenti e quando chiamato in causa, ma anche con l'endorsement che proprio Zion Williamson ha speso su di lui, definito un "professionista dei professionisti" in grado di guidarlo dalla panchina e suggerirgli la cosa più giusta da fare. L'impressione è che nemmeno farsi trovare pronto una volta chiamato in causa, dimostrando di essere il miglior compagno possibile per il numero 1 (non solo in attacco ma anche in difesa, vero aspetto in cui è stato eccellente contro i Celtics), basti per rientrare nelle grazie di un allenatore che ha già scelto di non contare più su di lui. Non è un caso che tra i nomi in odore di trade quello di Nicolò compaia spesso. A questo punto però, con il contratto in scadenza tra pochi mesi, toccherà a lui scegliere se tuffarsi in un'altra avventura del genere, cercando di strappare un nuovo contratto in NBA, o tornare grande in Europa. Ai posteri l'ardua sentenza.

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