Brittney Griner traumatizzata da mesi di prigionia russa, ha un bisogno elementare: “Voglio parlare”
"Brittney, è finita, stiamo andando a casa. Puoi rilassarti ora. Quello è il tuo posto sull'aereo, ti daremo il tuo spazio".
"Oh no. Sono stata 10 mesi in prigione ad ascoltare solo russo. Voglio parlare".
Da queste frasi pronunciate sull'aereo che ha riportato negli Stati Uniti la campionessa di basket Brittney Griner – dopo lo scambio ad Abu Dhabi col ‘mercante della morte', ovvero il trafficante d'armi russo Viktor Bout – si capisce il trauma che ha dentro di sé questa giovane donna, passata in un attimo nello scorso febbraio da fama, gloria e ricchezza ad un orrore raccapricciante.
Ci vorrà tempo per guarire le ferite devastanti che hanno lacerato l'anima della 32enne cestista delle Phoenix Mercury, due volte campionessa olimpica e mondiale, una delle giocatrici di pallacanestro più forti del pianeta. Pochi grammi di hashish, contenuti in alcune cartucce da svapare sequestratele all'aeroporto di Mosca poco prima dell'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, hanno trasformato la Griner da icona sportiva mondiale a pericolosa trafficante di droga condannata a 9 anni di carcere dalla giustizia russa. Un processo con garanzie pressoché nulle ha prodotto un verdetto politico che aveva il solo scopo di fare della campionessa una potente arma nella partita a scacchi in atto tra Russia e Stati Uniti.
Prima di poter tornare a casa per riabbracciare i suoi cari grazie allo scambio con Bout – che stava scontando una condanna a 25 anni sul suolo americano – Brittney ha dovuto scendere tutti i gradini del suo personale inferno: le autorità russe infatti, per mettere ulteriore pressione alla controparte statunitense, l'hanno rinchiusa in una colonia penale sprofondata nella regione della Mordovia, la temibile IK-2, definita da chi ha avuto la fortuna di uscirne come la più dura di tutta la Russia. Una baraccopoli al gelo, con poca acqua e infezioni diffuse come Aids, tubercolosi e Covid. Uno scenario in cui torture e stupri non sono rari, nella quotidianità dei lavori forzati delle detenute. Anche solo immaginarlo spezza il cuore, viverlo – sia pure per pochi giorni – deve essere stato uno shock.
"Sarà lei ad annunciare se intende riprendere la propria carriera – ha detto la sua agente – Ora il primo obiettivo per lei è riambientarsi in un mondo che è cambiato. Anche solo dal punto di vista della semplice sicurezza, niente sarà più come prima. Non è un destino che ha chiesto, ma penso che cercherà di utilizzare la sua fama a fin di bene". Intanto qualche ora fa la Griner è tornata a mettere piede in una palestra, allenandosi nella base militare di Fort Sam Houston, a San Antonio in Texas.
Il momento in cui Brittney ha capito che non era un sogno ma davvero l'incubo era finito è stato quando – su una pista dell'aeroporto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi – dopo essere stata rilasciata dai funzionari russi, è stata avvicinata da un uomo che finalmente parlava la sua lingua. Era Roger Carstens, l'inviato presidenziale speciale di Biden per gli affari legati agli ostaggi. L'uomo ha descritto il momento surreale in cui si è avvicinato per la prima volta alla Griner: si è identificato come membro del Dipartimento di Stato americano, poi ha spiegato che "a nome del presidente degli Stati Uniti Joe Biden e del segretario di Stato Antony Blinken, sono qui per portarti a casa".
Una volta sull'aereo, la tensione si è sciolta e la campionessa ha detto che voleva fare qualcosa di semplice e bellissimo, di profondamente umano: parlare. "Prima di tutto, chi sono questi ragazzi?", ha detto indicando i membri dell'equipaggio. "Mi è passata accanto ed è andata da tutti loro – ha raccontato Carstens – li ha guardati negli occhi, ha stretto le loro mani e gli ha chiesto i nomi, stabilendo un legame personale con loro. È stato davvero incredibile". Piccoli passi, per Brittney è come rinascere.