Steven Bradbury e la vera storia dietro l’oro più assurdo alle Olimpiadi: povertà, sangue e tattica
1'29″109: un minuto, diciannove secondi e 109 centesimi. La storia di Steven Bradbury si potrebbe riassumere in questi tre numeri, fatati. Con questo tempo, infatti, l'ex pattinatore australiano nel 2002 alle Olimpiadi di Salt Lake City conquistò uno dei trionfi più rocamboleschi e incredibili dell'intero panorama sportivo mondiale. Mai, prima e dopo quel 16 febbraio 2002 nessun altro atleta riuscì a fare altrettanto. Eppure, la spettacolare quanto inattesa vittoria olimpica è solamente una parentesi all'interno della straordinaria vita di Bradbury composta da un profondo dramma sportivo e da un uomo che non si è mai tirato indietro di fronte alle avversità che il destino gli ha riservato.
"Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L'ho vinta dopo un decennio di calvario", dirà più avanti lo stesso Steven ritornando sulla gara di short track più pazza del mondo che gli conferì una medaglia d'oro, fama e fortuna. "Mi sono sempre allenato fino allo sfinimento, ho partecipato a quattro Olimpiadi ma non ho mai guadagnato un centesimo da questo sport. Ho sempre vissuto con pochi soldi e non ne avevo abbastanza nemmeno per riparare la mia macchina, prima delle Olimpiadi di Salt Lake". Parole che racchiudono un'amarezza profonda con cui Bardbury ha dovuto convivere per decenni, lottando – e spesso perdendo – la propria battaglia con il destino. Parole che racchiudono l'infinita passione di un ragazzo che pur di raggiungere il proprio sogno ha rischiato persino di morire, ma senza mai mollare un attimo. E che nel tempo è diventato un romanzo, un lungometraggio cinematografico, uno stile di vita.
La storia di Steven Bradbury non si può di certo racchiudere in quel "minuto e mezzo", tutt'altro. Sin da bambino Steven si dedica al pattinaggio, ha buon equilibrio, una sana dose di spavalderia per osare, e coordinazione. Il ragazzino classe 1973 si appassiona soprattutto alla velocità e così inizia nella sua città natale, Sidney, a prendere confidenza con ciò che capisce sarà il suo sogno da coltivare: diventare un pattinatore professionista. E Steven inizia a bruciare le tappe e ad ottenere buoni risultati. A soli 18 si presenta ai Campionati Mondiali di Short track che si disputano proprio nella sua città e non fallisce l'appuntamento con la storia. Bradbury pattina nella staffetta, sui 5000 metri e insieme ai propri connazionali vince la medaglia d'oro. E' il 1991, la nascita di un nuovo campione. Steven sembra inarrestabile, vincerà il bronzo a Pechino nel 1993, l'argento mondiale a Guildford nel 1994, anno in cui troverà il successo olimpico ai Giochi di Lillehammer, con un nuovo bronzo: tutti nella stessa specialità, la staffetta sui 5 mila metri.
Al giovane Steven non basta, l'ottavo posto conquistato nella prova individuale, sui 1000 metri, lo ha deluso. Decide che ci riproverà appena ne avrà una nuova occasione. E l'occasione arriva, gareggiando in Coppa del Mondo. Ma il destino gli volta le spalle e gli apre una prima voragine immensa. A Montreal, durante una prova mondiale, Bradbury si scontra sul ghiaccio con Mirko Vuillermin: l'impatto è devastante, la lama entra nella carne di Steven. L'esito altrettanto grave: taglio dell'arteria femorale. Il sangue di Bradbury inonda il ghiaccio di Montreal, i soccorsi arrivano immediati, come la corsa all'ospedale dove lotta tra la vita e la morte. Perderà più di quattro litri di sangue, ma alla fine quel ragazzino di Sidney che non voleva abbandonare un sogno appena all'inizio, ce la fa.
La riabilitazione è lunghissima: diciotto mesi trascorsi a ridare tonicità alla gamba, a ristabilire nuovi equilibri del corpo, a testare la reattività di muscoli e tendini. Ma Steven Bradbury sa che quel taglio ricucito da 111 punti, in realtà non si rimarginerà mai più. La sua carriera ad alto livello è segnata per sempre. Eppure, a 22 anni, decide di sfidare di nuovo la sorte, pattini ai piedi, a tutta velocità. E' così che insiste approfittando anche dell'assenza di una reale concorrenza nella disciplina in Australia. Pur non pattinando più su tempi assoluti, mantiene un posto in nazionale e nel 1998 trova il suo primo riscatto sportivo: in Giappone, ai Giochi Olimpici di Nagano arriva prima ottavo in staffetta, poi diciannovesimo sui 500 metri, infine ventunesimo sui 1000. Tutti si sarebbero arresi di fronte all'evidenza di non poter più competere ai massimi livelli, ma non Steven che insiste. E il destino gli riserva una seconda terribile bastonata.
L'obiettivo di Bradbury è puntare dritto alle Olimpiadi 2002: in Australia la concorrenza non è moltissima nello short track e così resta tra i migliori del Paese, continuando ad allenarsi. Fino al 2000, quando durante una seduta d'allenamento subisce un altro grave infortunio: si frattura due vertebre, vicino al collo. Ancora una volta lo spettro del ritiro, di dover rinunciare al proprio sogno. E anche questa volta, Bradbury riemerge. Passa sei settimane con un collare ortopedico, due mesi lontano dalle piste e dal ghiaccio ma Salt Lake City non aspetta e nemmeno le qualificazioni ai Giochi Olimpici 2002. Così, riesce a entrare nei tempi e si presenta tra gli iscritti per l'Australia nello Short Track.
L'incredibile finale del 16 febbraio 2002
A Salt Lake City, Steven Bredbury prende parte a due specialità: i 1500 metri e i 1000 metri individuali. Non è tra i favoriti e lui lo sa. Fatica sin da subito, supera i primi turni e si presenta nei quarti di finale, dove inizia a confrontarsi con i migliori. Sul ghiaccio ci sono veri e propri fenomeni del pattinaggio in velocità: l'astro nascente al debutto olimpico, Apolo Ohno (che chiuderà la propria carriera con 9 titoli mondiali) e Marc Gagnon, il canadese "cannibale" degli anni 90, indiscusso favorito dopo l'oro di Nagano.
Bradbury ci prova e arriva terzo proprio dietro ad Ohno e Gagnon, ma non basta per guadagnarsi le semifinali. L'addio all'ultimo sogno più grande però viene rimandato: c'è la squalifica del canadese e Bradbury sale al 2° posto che vale la semifinale. Una sfida ulteriormente proibitiva, sempre per la caratura di atleti che lo sovrastano, ma il destino questa volta sembra volergli strizzare l'occhio e aiutarlo: Kim Dong-Sung, Mathieu Turcotte e Li Jiajun cadono durante la gara, Satoru Terao viene squalificato. E Steven Bradbury viene catapultato in finale.
Cosa accadde in finale lo sappiamo tutti, in una sequenza epocale documentata in modo anche irriverente da centinaia di filmati diventi epici: Bradbury è subito in difficoltà, ultimo dopo i primi giri. Ma proprio quando tutto appare perduto e non resta che lo consolazione di averci provato, all’ultima curva accade l'incredibile: Li Jiajun perde aderenza sul ghiaccio e cade. Mentre scivola trascina a sè tutti gli altri atleti in gara che stavano lottando per le medaglie. Il ritardo in pista di Bradbury si trasforma in una incredibile arma vincente: è lui che taglia il traguardo per l’oro olimpico, il primo in assoluto dell’Australia ai Giochi invernali. L'ultimo uomo rimasto in piedi, una frase che in futuro trasformerà in un vero e proprio marchio di fabbrica.
"Mi piace guardare la caduta degli altri", ricorderà più avanti rivivendo la finale.
"Mi piace rivedere lo sguardo sul mio viso quando ho superato il traguardo. Ma non mi piace davvero guardarmi pattinare in quella gara: è stata la peggiore che ho fatto quella notte. Quando sono arrivato in finale sapevo di essere l'atleta più anziano rimasto in gioco ed ero abbastanza certo che non avrei avuto grandi possibilità ancor prima che iniziasse. C'era grande competitività, il rischio di cadute era altissimo, non mento se dico che speravo di avvantaggiarmene, magari strappando un bronzo. Per questo motivo ho adottato in finale una tattica di gara particolare, attendista, perché non pensavo davvero di poter competere nessuno di quei ragazzini".
"Doing a Bradbury", conquista un successo clamoroso
E quel ragazzino partito da Sidney con un sogno nel cassetto è riuscito alla fine a diventare un campione, nel modo meno atteso, coronandosi dell'alloro più alto che ci sia: l'oro olimpico. "So perfettamente di essere probabilmente la medaglia d'oro olimpica individuale più fortunata della storia – ha sempre ammesso – ma questo non cambia il fatto che sono stato io a capitalizzare quando tutti hanno commesso degli errori". Da quel febbraio 2002, all'età di 29 anni Steven non gareggerà mai più, appenderà i pattini al chiodo, null'altro da chiedere alla vita, ripagato di ogni amarezza, dolore e delusione che lo avevano accompagnato negli anni precedenti. Al contrario di molti altri, però, Bradbury si gode il trionfo a proprio modo, godendoselo fino in fondo ma togliendosi dalla scena sportiva d'alto livello.
Grazie al successo di Salt Lake City, si scopre che dietro ad un atleta c'è anche un uomo, un personaggio istrionico, estroverso, che la vita (e i suoi drammi) non hanno domato. Attira su di sè le simpatie di tutti: tifosi, atleti, giornalisti e inizia una nuova vita per Bradbury. Tutti stravedono per lui, l'Australia gli dedica prima un francobollo poi un modo di dire che porta il suo cognome: "Doing a Bradbury" per dire "compiere un successo clamoroso". Un'ulteriore conferma di quanto di buono sia riuscito a dare allo sport e alla comunità: "Ogni volta che lo sento, i peli sulla nuca si rizzano ed è fantastico essere stato in grado di essere ricordato – ha detto recentemente a riguardo -. Se le persone sono disposte a impegnarsi davvero in qualcosa per molto tempo, poi possono mettersi in condizione di avere un po' di fortuna. Se la mia storia è in grado di ispirare alcuni australiani a impegnarsi un po' di più in quello che fanno, allora dico di andare là fuori e fare la tua versione di ‘Bradbury'. Cosa stai aspettando?"
Resterà vicino al mondo del pattinaggio ma semplicemente come commentatore, ruoli che lo riporterà l'anno successivo sul luogo del misfatto, per i mondiali di Salt Lake City ma solo in veste di cronista dell'evento. Un paio d'anni più tardi verrà chiamato al "Dancing with the stars" australiano dove ha modo di ribadire la sua simpatia e il pubblico a riconfermargli l'affetto che si concretizza nel 2007 quando viene decorato per meriti sportivi con la medaglia dell'Ordine dell'Australia. Il pattinaggio e la velocità non li dimentica e così affianca al suo ruolo di commentatore sul ghiaccio quello di pilota di Formula Vee, gareggiando in Australia.
Last Man Standing, l'ultimo uomo in piedi
Ma non è tutto: Bradbury è polifunzionale, fa tutto e sa fare di tutto. Diventa anche un motivatore professionista e crea uno spettacolo apposito poi diventato anche un brand di birre lager australiane, ovviamente di cui lui è produttore e testimonial. Una scelta di vita non a caso, che è diventata ben presto un successo, nata – anche in questo caso – dietro un'altra storia triste che il 50 enne di Sidney è riuscito a trasformare in successo: "Un omaggio al mio grandissimo amico Roy, scomparso sfortunatamente 12 anni fa. Avevamo intenzione di produrre birra, poi con i suoi figli non abbiamo mai fatto nulla al riguardo. Poi, dopo un decennio abbiamo capito cosa si doveva fare: abbiamo deciso che non volevamo vivere con il rimpianto. E stiamo producendo la miglior lager del paese, in segno di amicizia e nel ricordo di Roy". Non solo, perché nome e logo, ovviamente, richiamano i trascorsi sportivi di Steven e ritornano prepotenti a quel febbraio 2002: "Last Man Standing", ovvero "l'ultimo uomo in piedi".
"Pensavamo che fosse un nome ovvio per chi beve birra e anche un buon nome per una birra. E così è stato. Il logo della lepre e della tartaruga incoraggia anche il bere responsabile perché non vuoi essere la lepre, andare troppo forte, troppo presto. Devi camminare su te stesso, non prendere in giro te stesso: sii la tartaruga".
Come fece un certo Steven Bradbury in un meraviglioso giorno di febbraio durante le Olimpiadi di Salt Lake City.