Stephen Curry, l’uomo che sta cambiando la storia della Nba
Siamo testimoni della storia. Spettatori di un cambiamento concettuale del modo di giocare a pallacanestro, e quel cambiamento ha le stigmate di Wardell Stephen Curry. In media ogni dieci, quindici anni, nell'Nba arriva una rivoluzione copernicana incarnata da un giocatore così superiore agli altri, da costringere il gioco ad adeguarsi alle sue caratteristiche. Se volessimo tracciare una linea partendo da colui che per acclamazione è il più grande della storia del basket, ovvero Michael Jordan, in successione abbiamo Kobe Bryant, Lebron James, e adesso Steph Curry. Ma nel playmaker dei Golden State Warriors (e anche qui dovremmo metterci d'accordo sull'attuale significato nella Nba del 2016 di questo ruolo) c'è qualcosa di mai visto prima: un livello di creatività ed efficacia, che manda fuori scala tutti gli indici statistici.
I numeri non dicono sempre tutta la verità, ma raramente mentono. E a leggere i numeri prodotti da Curry in questa stagione si deve abbandonare per forza la razionalità e avvicinarsi a un concetto astratto che lambisce i confini dell'irreale. 30.7 punti di media a partita, 6.6 assist, 5.3 rimbalzi, tira il 51% dal campo, con il 46% da tre punti, e il 90% ai liberi. E senza entrare nel dettaglio delle cosidette statistiche avanzate (che restituiscono un dominio ben più marcato delle medie di punti, assist e rimbalzi) aggiungiamo solo che è il primo giocatore della storia NBA a far registrare due partite in fila con almeno 10 triple realizzate. Inoltre ha allungato la striscia (attiva) che fa riferimento al numero di partite consecutive con almeno una tripla a segno (129), e al record (da lui stesso detenuto) di canestri da tre punti realizzati in una stagione (288). L'effetto Curry traduce queste cifre in un impatto sulle partite che ha la portata di un ciclone.
La sua pallacanestro non è uno splendido assolo di jazz, ma si inserisce nello spartito di una fenomenale orchestra che prende il nome di Golden State Warriors. La squadra allenata da Steve Kerr (che con 53 vinte e 5 perse in stagione, attenta al record dei Chicago Bulls del 95/96 che chiusero con 72 vittorie e 10 sconfitte), uno che ha visto molto da vicino Michael Jordan, esprime alla perfezione la rivoluzione del paradigma attuale nella Nba. I concetti di flusso e spaziature dell'attacco sono quasi elevati a scienza esatta da un gruppo di atleti che rappresentano al meglio lo spirito del tempo della Lega. Accanto a Curry, ci sono Klay Thompson, Draymond Green, Harrison Barnes, Andre Iguodala, più un altro manipolo di giocatori che vanno a comporre i perfetti ingranaggi di un sistema che vanta ormai innurevoli tentativi di imitazione, ma che per sua natura è difficilmente replicabile. I 46 punti segnati ad Oklahoma contro i Thunder di Kevin Durant e Russel Westbrook, le 12 triple su 15 tentativi (pareggiato il record di tiri da tre puti segnati in una singola partita, stabilito da Kobe Bryant e Donyell Marshall), il canestro della vittoria scagliato poco oltre il centrocampo nell'overtime, hanno avuto una tale risonanza mondiale, che sì, perfino il Tg1 gli ha dedicato un servizio nell'edizione delle 20.
Oggi sono in tanti a salire sul carro di Curry, eppure non è sempre stato tutto così magnifico. Partiamo da lontano: Steph non è la vostra classica storia Nba. Niente ghetto, niente madre adolescente e padre assente, niente problemi con la legge. Gli stereotipi che troppo spesso ricorrono nelle biografie dei campioni afromericani – leggasi Allen Iverson per un parallello con un giocatore di “taglia” simile – qui sono assenti. Steph è figlio di Dell Curry, guardia con una più che solida carriera Nba negli Anni '90. Un grande tiratore da tre punti, che il suo meglio lo diede con le maglie degli Charlotte Hornets e dei neonati Toronto Raptors. Mai nessuno avrebbe potuto immaginare, neanche nei sogni più spinti, che quel ragazzo avrebbe fatto impallidire la figura del padre. Sua mamma Sonia in una intervista dopo la vittoria del titolo Nba del 2015 disse: “Ho pregato tutti i giorni per questo momento. Sapevo che aveva tutto quello che serviva per farcela, e ogni giorno pregavo Dio che lo facesse crescere, che gli desse quei centimetri necessari per stare nella Nba”.
Già i centimetri. Curry supera di poco il metro e ottantacinque, e nella sua adolescenza nel North Carolina non era esattamente il Lebron James della situazione (curiosiamente i due sono nati nello stesso ospedale di Akron, Ohio, a quattro anni di distanza, James nel 1984, Curry nel 1988), e non è un caso che l'unica Università ad offrirgli una borsa di studio per la pallacanestro, fu Davidson, che sulla mappa della Ncaa non è certo Kentucky, Duke o North Carolina. Dopo una clamorosa carriera collegiale, venne scelto “solo” al numero 7 del draft Nba del 2009 (prima di lui nello stesso ruolo viene chiamato Jonny Flinn, ora disperso chissà dove). Di Curry dicevano “troppo piccolo per giocare guardia, non abbastanza veloce per giocare play”. Nulla di più sbagliato, perché il tiro, il ball handing, la visione del gioco, e il carattere, non sono abbattibili da frettolose etichette. Ma questo è il minimo che ci si poteva attendere da uno destinato a essere inserito tra i più grandi di sempre.
Prima di Curry, simili a Curry ci sono stati Pete “Pistol” Maravich e Steve Nash, ma forse nessuno di questi due grandi campioni avevano questo livello di “insanity”. La verità è che il numero 30 dei Warriors va contro tutti i dettami della pallacanestro istituzionale. “Per anni abbiamo lavorato su un software che premiasse le buone scelte di tiro e la possibilità di battere il proprio uomo uno contro uno, solo dopo azioni sensate. Ma con Curry siamo in difficoltà, non riusciamo a rendere reale il suo stile di gioco”. Questo è il commento di uno degli sviluppatori del videogioco Nba 2K 16. Così unico, così diverso, da mandare in crisi un software. Se questo non è cambiare la storia, allora cosa è? Forse la risposta definitiva la conosce solo Stephen Curry. Noi restiamo senza parole ad ammirare