Roberto Visentini oggi lavora nelle pompe funebri: “Sapevo che sarebbe stato il mio dovere”

Roberto Visentini in una vita precedente è stato un grande campione del ciclismo italiano, vincitore del Giro d'Italia nel 1986, quando il dualismo tra Moser e Saronni viveva gli ultimi fuochi e Bernard Hinault era il fuoriclasse di quell'epoca dei pedali. Da allora sono passati 40 anni e il 67enne bresciano fa tutt'altro: lavorare nelle pompe funebri. Peraltro già allora sapeva che avrebbe fatto esattamente questo.
Una storia che parte da molto lontano: "Scrivevano che ero di famiglia benestante, fa ridere. Mio nonno, falegname, nel 1930 decise di dedicarsi prima a costruire casse da morto e poi ai funerali. Quando moriva qualcuno, lui prendeva le misure e costruiva la cassa. Poi via a cavallo con il cofano sul carretto verso la montagna, i paesini sperduti del Garda bresciano: vestiva la salma, la portava in chiesa, la tumulava", racconta Visentini al Corriere della Sera.

Roberto Visentini, oggi il ciclismo è lontano: lavora nelle onoranze funebri
Da lì sarebbe nata un'attività di famiglia che prosegue tutt'ora e della quale ha preso le redini Roberto appena è sceso dalla bicicletta, peraltro in maniera naturale e non forzata. La sentiva sua: "Le Onoranze Funebri Visentini stanno per compiere cento anni. Papà prima affiancò e poi rimpiazzò nonno. Da bambino sapevo che sarebbe stato anche il mio lavoro. Lo sentivo: a tuo agio con la morte ci devi nascere. Sapevo che il ciclismo sarebbe stato provvisorio. Quella della famiglia benestante è una balla: già con i primi stipendi guadagnavo più di papà".
Il racconto del cambio di vita di Visentini è davvero sorprendente: "Mollai tutto, di punto in bianco. Ero saturo. Non ho più voluto rivedere nessuno e, a parte un paio di feste celebrative, è da quarant'anni che sto fuori dal ciclismo. Le maglie rosa, i trofei? Regalato tutto. Tranne la Coppa del Giro, quella sta lì sulla mensola del salotto. Un sabato d’autunno del 1990 restituì le bici alla squadra, il lunedì ero già al lavoro. Un passaggio brutale? No, naturale: sapevo che sarebbe stato il mio dovere, ero preparato anche se non avevo gestito un solo funerale in vita mia".

Visentini spiega di cosa si occupa esattamente nell'azienda di famiglia, compiti molto delicati: "Di rendere più accettabile la morte di una persona cara. Perché morire è inevitabile e spesso è anche accettabile. Altre volte non lo è per niente: ragazzi, incidenti stradali, tragedie sul lavoro. Bisogna occuparsi dei corpi, di quelli che voi giornalisti descrivete come ‘poveri resti'. E di chi è sopravvissuto. Della parte più delicata da quasi quarant'anni mi occupo io. Come si rende accettabile la morte? Con tatto e delicatezza. Quando vedo o leggo certe pubblicità di agenzie funebri che fanno ironia sul nostro lavoro e sulla morte mi indigno: serve rispetto. Vent'anni fa ho costruito una delle prime case funerarie del bresciano perché i familiari potessero salutare i loro cari in un luogo diverso, meno disumano di un obitorio".
Il ‘tradimento di Sappada', Visentini non ha mai perdonato Roche: "Non l'ho più visto e non lo voglio più vedere"
Una battuta velenosa Visentini la dedica anche a Stephen Roche, il compagno di squadra nella Carrera che lo tradì in maniera passata alla storia del ciclismo durante il Giro d'Italia del 1987, andando in fuga quando il bresciano era in testa alla classifica generale: "Un tradimento, una bestemmia tattica. Mi abbandonarono i gregari, mi abbandonò l'ammiraglia dove al comando c'era Davide Boifava, team manager senza polso. Rimasi alla deriva in maglia rosa, i corridori delle altre squadre che mi compativano allibiti. Moser mi disse: ‘Devi spaccare la faccia a tutti'. Persi sette minuti e il Giro. Un tradimento studiato a tavolino. Volevano un vincitore straniero per interessi di sponsor e Roche era un tipo disposto a tutto. Per fortuna sua ci tennero separati. Non l'ho più visto e non lo voglio più vedere. So che ha avuto problemi con il fisco: se li merita…".