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Quando Schwazer ci illuse di essere un esempio

Era il 2010 ed Alex Schwazer, ritiratosi a Barcellona, diceva al Corriere della sera di non riuscire più a divertirsi, di un fisico che non aveva più voglia di provare fatica. Parole oneste e bellissime, che stonano con tutto ciò che ieri è accaduto.
A cura di Andrea Parrella
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Nell’estate del 2010, Alex Schwazer fallì, venne meno durante la 50 km di marcia degli europei di Barcellona dopo un argento prezioso ottenuto alla 20 km. Accusò, ufficialmente, problemi di tipo muscolare. Alla fine della gara, con una superba onestà intellettuale,  il campione olimpico in carica si presentò davanti a stampa e televisione ammettendo la natura del ritiro, il motivo di quella sconfitta: «Il problema è che da due anni non riesco più a gioire, non mi diverto più. Una gara così se ho un minimo di condizione, dovrei dominarla. Non so più cosa dire». Trasparivano segni di rara umanità nelle parole citate  dall'articolo del Corriere della sera.

“ Questo è uno sport dove devi essere umile, dove devi aver voglia di spaccare il mondo, e io purtroppo non lo so, considero tutto scontato. Nel rispetto di chi fa fatica qua devo pensarci sopra, così non va bene. A volte ho la sensazione che il mio fisico faccia di tutto per non fare fatica ”
Alex Schwazer, europei 2010

Mi sembrarono frasi meravigliose, degne di chi intuisce dove si costruisca un successo sportivo, da dove provenga. Con quelle stesse parole Schwazer ammetteva l'eventualità di un problema che, nel momento stesso in cui se ne realizza l'esistenza è di fatto invalicabile. Stava dicendo la verità sui cannibali, quegli sportivi incapaci ad arrendersi, sempre affamati di vittoria: semplicemente incoscienti che questo limite motivazionale possa esistere, che i celebri occhi della tigre possano venire meno. Quelle dichiarazioni segnavano una linea di demarcazione tra l’uomo saggio (che i propri limiti li riconosce) e lo stereotipo di sportivo che non contempli la parola sconfitta (accusando altri, negando le proprie colpe).

Avrei dato tutto perché quelle frasi venissero evidenziate, rivalutate, prese in considerazione, affinché fossero innalzate a modello di buon senso, virtù non troppo comune nel mondo (dello sport). Perché quella franchezza in qualche modo potesse essere una compensazione per la sua sconfitta. Quelle dichiarazioni non potevano essere il preludio di un gesto come quello di cui siamo venuti a conoscenza ieri. Come noto, Alex Schwazer è stato escluso dai giochi perché positivo al test antidoping. Ci saremmo aspettati da un cannibale un gesto del genere, senza voler disdegnare i cannibali. No di certo da un soggetto pensante, un autocritico.

E' infinitamente doloroso (non per una medaglia mancata alle Olimpiadi 2012) leggere delle sue parole al telefono con l'allenatore, quel ripetere puerilmente che si assumeva tutte le responsabilità ammettendo d'essersi infilato volontariamente nell'illecito. A primo impatto ho perseguito immediatamente la strada del complotto, convinto che ci sia un discreto quantitativo di casi in cui il doping non dipende dalla volontà dell'atleta singolo, ma da quella di chi lo gestisca. Invece no, è lui stesso ad ammettere, in piena linea con chi l'abbia preceduto in queste tristi vicende, che voleva continuare a vincere, gli veniva difficile accettare di non essere il più forte.

E' una cosa che lo riporta coi piedi per terra, allo stesso rango dei molti ragazzi inabili a contemplare un limite, a comprendere che un limite non possa non esserci.  Ma è uno schiaffo al suo stile,  come se, dette da lui, queste siano parole ancor più stridenti, laceranti, disillusorie: assoluto elemento di sfiducia verso qualcosa, lo sport, nei confronti della quale il pubblico pagante è costretto da troppo tempo ad applicare prima la legge del sospetto e poi quelle dell'entusiasmo e della sorpresa. Questa inversione di tendenza è, in sé, quanto di più malsano possa esistere ed estorce allo sport il suo senso primitivo, l'unico senso che dovrebbe avere.

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