Pelé ai Cosmos, la scoperta dell’America: icona del calcio e cittadino del mondo
"Ricordati, noi due siamo i più grandi del mondo". A parlare è un commosso Muhammad Ali negli spogliatoi del Giants Stadium di New York. E' il primo ottobre 1977. Piange salutando il re del calcio che dice addio al suo sport. O'Rey, Pelé sta per giocare la sua ultima amichevole. E' un omaggio e insieme un atto di riappropriazione nazionale. Gioca il primo tempo con i Cosmos, che l'hanno riempito d'oro negli ultimi tre anni di carriera. E il secondo con la maglia del Santos, la squadra brasiliana a cui ha dedicato diciannove anni di vita. La sua nazione, che male aveva visto l'espropriazione della più grande icona verdeoro insieme al Cristo di Rio, riabbraccia il campione che ha cambiato il calcio.
Pelé era arrivato negli USA tre anni prima, nel 1975. Non giocava da quasi un anno. Ha accettato l'offerta dei Cosmos, la squadra di Giorgio Chinaglia, che poi sarebbe stata anche di Carlos Alberto e Beckenbauer. La squadra più cosmopolita e hollywoodiana nella storia del calcio, non a caso aveva dietro la Warner Communications e in spogliatoio si vedevano di frequente Robert Redford o Mick Jagger.
Pelé non giocava da un anno, ma aveva bisogno di soldi: un'azienda della gomma perdeva milioni e lui aveva accettato, firmando un documento senza leggerlo, di fare da garante delle perdite. L'offerta, comunque, era di quelle che non si rifiutano: 4 milioni di dollari a stagione. Per tre anni da calciatore, più altri tre come testimonial, avrebbe guadagnato più che in tutto il resto della carriera. Pelé ha scoperto l'America, l'America ha scoperto il re del calcio. La Major League Soccer di oggi gli deve tanto.
Pelé atterrò nella "Città della Paura"
Eppure, è atterrato circondato da dubbi in una New York molto diversa da quella che avrebbe lasciato. Atterrare all'aeroporto Kennedy nel 1975 voleva dire essere accolti dai poliziotti in borghese che consegnavano un opuscolo del Council for Public Safety. Sopra un teschio col cappuccio, turisti e visitatori leggevano: "Benvenuti nella città della paura". E una serie di 18 indicazioni per la sopravvivenza, come: non uscite dopo le 18 perché sono aumentati gli omicidi, non camminate a piedi, evitate la metro. Dietro i contenuti, esagerati dai veri autori, lavoratori pubblici in protesta contro i tagli, c'è una città cupa che si specchia al cinema. Sono gli anni di Taxi Driver, del Bronx degli scorci densi dei Guerrieri della Notte a segnare un confine. Oltre, non si può più guardare.
Timori e desideri di cambiamento, frustrazioni e sogni di grandezza impastano i giorni e le notti di una New York che restringe anche gli orizzonti. Ma "il futuro del rock and roll", Bruce Springsteen, nel 1975 ricordava al mondo che siamo nati per correre, Born to Run. E Pelé inaugurava una presa di coscienza collettiva.
Alla sua prima conferenza stampa, fra i giornalisti serpeggiava una domanda. Il campionato di calcio, che allora si chiamava NASL (National American Soccer League) l'anno prima aveva registrato un'affluenza media di 10 mila spettatori. Perché spendere così tanto per un calciatore, si chiedevano, se del calcio non interessa quasi a nessuno?
Eppure, la sua prima partita con i Cosmos ha attirato 21.278 tifosi allo stadio, è stata trasmessa in tutti gli USA, in Brasile, in Giappone, in Costa Rica, e poi in Messico, Colombia, Venezuela, Panama, Porto Rico, Canada.
La promessa di O'Rey: "Il calcio è più grande di me"
"Il calcio è più grande di Pelé" diceva, "io posso mostrare alla gente il gioco. E loro decideranno" Ha fatto molto più di questo, ha scritto Dave Anderson, giornalista del New York Times, dopo la sua ultima partita ufficiale con i Cosmos, la finale per la vittoria del campionato 1977. "Ha mostrato se stesso, e li ha aiutati a decidere – ha scritto -. Ha reso il calcio importante in questa nazione. Babe Ruth ha fatto lo stesso per il baseball, Jack Dempsey per la boxe, Bobby Jones per il golf. Mezzo secolo dopo, Pelé l'ha fatto per il calcio". Ai newyorchesi, agli statunitensi, al mondo ha offerto qualcosa di diverso da guardare. Un altro modo di parlare, che poi è un modo diverso di pensare. Non gli piaceva sentire il football chiamato soccer, ha introdotto una terza via: "beautiful game", versione globalizzata del "joga bonito". Oggi è una delle espressioni più usate per simboleggiare il calcio.
"L'impatto di Pelé è il più importante fattore singolo per la nostra crescita" ammetteva allora il commissioner della lega, Phil Woosnam. La NASL sarebbe durata ancora fino al 1984. Ma se sei anni dopo quella data gli USA si sono qualificati ai Mondiali, e se quattro anni dopo ancora i Mondiali li hanno organizzati, il merito è anche suo. La "legacy" americana di Pelé ha una misura e una data precise. E' il 14 agosto 1977, per una sfida di playoff il Giants Stadium si riempie di 77.691 spettatori: tutto esaurito per una partita di calcio. Quattro giorni prima, 57.828 persone si sono messe in fila per ore sotto la pioggia per vedere il soccer. Mentre la contemporanea partita di baseball dei New York Yankees di tifosi ne attirava appena 16.463.
"In cinque anni, possiamo diventare il centro calcistico del mondo" diceva Woosnam alla fine di quella stagione. Un esercizio certo eccessivo di ottimismo della volontà. Ma senza Pelé, non avrebbe avuto alcuna posizione da esprimere.
Cambio di paradigma: "Love, love love"
Le sue tre stagioni a New York inducono un cambio di paradigma. "Molti non l'hanno visto giocare, ma lo sentono come parte delle loro vite" ha detto Henri Kissinger, segretario di stato USA fra il 1973 e il 1977. C'era anche lui fra i quasi 78 mila spettatori al Giants Stadium quel 14 agosto del '77.
Mese dopo mese, partita dopo partita, il fenomeno Pelé è diventato il fenomeno Cosmos. Lo specchio della New York disincantata e vitale. Nel suo ultimo anno, le due anime si saldano. Woody Allen scrive Annie Hall. I Fleetwood Mac vendono 30 milioni di dischi con Rumors, una pubblica confessione di amori e tradimenti in tempo reale: il primo reality-album nella storia della musica. A Berlino David Bowie osserva due innamorati su una panchina di fronte al Muro di Berlino e ci ricorda che possiamo essere eroi, ma solo per un giorno.
New York convive con la crisi economica, con lo scandalo Watergate, con le proteste per la guerra in Vietnam. E insieme si libera nelle notti di passioni e folgorazioni allo Studio 54. Il locale, ha detto Andy Warhol frequentatore più che abituale, "è una dittatura alla porta e una democrazia sulla pista da ballo". Anche, e di più, negli scantinati dove si conservano le scenografie per le indimenticabili feste e si sciolgono le briglie ai desideri. Lì i calciatori dei Cosmos sono praticamente di casa.
Ogni partita, ogni trasferta di quella squadra replica la stessa atmosfera. La guardia del corpo di Pelé in ogni albergo scopre e respinge donne che tentano di intrufolarsi nella sua camera magari nascoste nel cesto della lavanderia.
Tutti lo vogliono, tutti lo cercano. E lui si mostra, in pubblico, ovunque. Con lui in squadra, i Cosmos hanno giocato dappertutto, dall'Uganda alla Nigeria, dal Venezuela all'India, dall'Italia alla Cina, dove nessuna squadra di calcio occidentale era mai atterrata dalla morte di Mao Zedong.
Il 28 settembre 1977 l'ONU lo dichiara "cittadino del mondo". Tre giorni dopo il mondo si ferma a guardarlo un ultima volta. Segna il suo ultimo gol, nel primo tempo giocato per i Cosmos, prima di cambiarsi e disputare gli ultimi 45 minuti con il Santos. A fine partita, sul Giants Stadium cala un enorme striscione con la scritta "Grazie Pelé".
Lo abbracciano tutti, compreso Muhammad Alì sceso sul terreno di gioco. Pelé incrocia le mani dietro la testa, come si regge un calice per scaldare un brandy. Scalda parole inevitabilmente retoriche, prevedibilmente ecumeniche. "Ricordatevi dei bambini. Abbiamo bisogno di loro. L’amore è più importante di qualsiasi altra cosa possiamo ottenere nella vita" dice. E invita a scandire "Love, love, love" come i Beatles. Come avrebbe cantato Caetano Veloso che ha scritto una canzone dedicata a Pelé ispirata proprio a quel momento. Invita all'amore mentre fuori piove. Un giornale brasiliano, il giorno dopo, titola per tutti: "Piangeva anche il cielo".