Non fossimo nel Paese dei 60 milioni di allenatori, il calcio dovremmo cominciare ad odiarlo. Uno sport completamente asservito alle logiche del profitto, su cui si concentrano il nervosismo, la rabbia, l'insofferenza di un Paese sull'orlo di una crisi di nervi. Un gioco che finisce con il dividere, più che unire; per ampliare finte e sterili contrapposizioni; per creare attese e speranze in un clima surreale che spettacolarizza e quindi mortifica ogni sentimento genuino, ogni passione vera e pura. E che è così irrimediabilmente lontano da quelle immagini che affiorano dai ricordi di ognuno di noi: un pallone, un prato, un gruppo di amici e magari due sassi come pali e qualche linea sbilenca a delimitare il campo.
Non fossimo garantisti per natura, verrebbe voglia di inveire contro questi "ragazzotti fortunati", avidi, arroganti e presuntuosi. Contro quei 4 scommettitori sfigati, come improvvidamente qualcuno ha provato a definirli. Ragazzi che proprio non riescono ad "accontentarsi" di un lavoro da sogno, di guadagni da capogiro, di fama e successo. Ma che vogliono di più. Sempre. E che però (e forse proprio per questo) sono anche lo specchio di un certo Paese. Quello dell'arrivismo e del senso di impunità. Quello della volgarità e dell'esibizionismo. Quello della corruzione e del malaffare. Non fossimo in queste condizioni, il calcio riusciremmo ad odiarlo. O a cambiarlo.