La velocista francese transgender è distrutta dal divieto delle Olimpiadi: “Quel ragazzo non ero io”
Halba Diouf è una velocista francese di 21 anni che ha inseguito a lungo il sogno di gareggiare alle Olimpiadi di Parigi che si disputeranno nel 2024. Il sogno di correre per il proprio Paese, all'insegna della massima inclusione, visto che l'atleta non è francese di nascita – essendo nata in Senegal e poi trasferitasi in Europa all'età di 4 anni – e non è nata donna ma uomo. E proprio quest'ultimo elemento impedirà alla velocista di realizzare il suo sogno, in seguito al divieto alle atlete transgender di competere nelle gare femminili, stabilito lo scorso marzo dalla Federazione Internazionale di atletica leggera sulla base della "necessità di proteggere la categoria femminile".
Un divieto arrivato dopo tutte le polemiche e discussioni degli anni scorsi, che erano sfociate nella clamorosa esclusione dai Giochi di Tokyo del 2021 della mezzofondista sudafricana Caster Semenya, in precedenza due volte medaglia d'oro negli 800 metri alle Olimpiadi di Londra e Rio de Janeiro. A marzo dunque la World Athletics ha bandito le donne trans dalle competizioni femminili d'élite. Il punto del contendere è sempre lo stesso: al di là della quantità di testosterone pur bassa che si può avere nel proprio organismo dopo aver completato la transizione di genere, il problema sono i vantaggi che rimangono per il fatto di essere nati maschi ed aver vissuto la pubertà da uomo. Secondo studi accreditati, infatti, la terapia ormonale sostitutiva non cancella quei grossi benefici ormai acquisiti: ossa più lunghe, organi interni (cuore e polmoni) ed arti (piedi e mani) di dimensioni maggiori rispetto alle atlete nate biologicamente donne.
È esattamente questo che ha ribadito Sebastian Coe, presidente della Federazione Internazionale di atletica, quando due mesi fa ha annunciato l'esclusione di "tutte le atlete transgender maschio-femmina, che hanno attraversato la pubertà maschile, dalle competizioni femminili d'élite dal 31 marzo", promettendo comunque "l'istituzione di un gruppo di lavoro per svolgere ulteriori ricerche sulle linee guida sull'ammissibilità dei transgender", con particolare riferimento a "maggiori prove che qualsiasi vantaggio fisico sia stato mitigato".
Intanto ad ora resta la proibizione di competere per atlete come Diouf, che da adulta si è trasferita ad Aix-en-Provence, dove ha iniziato la terapia ormonale per cambiare sesso: la sua transizione di genere è stata riconosciuta dalle autorità francesi nel 2021. Ci ha dato dentro con gli allenamenti la giovane velocista, per cercare di migliorare il suo tempo sui 200 metri e guadagnarsi la selezione nella squadra francese per le Olimpiadi di Parigi dell'anno prossimo.
Tutto inutile adesso, c'è quel divieto che pesa come un macigno e ha gettato Halba in uno stato di profonda prostrazione: "Non riesco a capire questa decisione, poiché alle donne transgender è sempre stato permesso di competere se i loro livelli di testosterone fossero stati al di sotto di una certa soglia", ha detto alla Reuters. "L'unica tutela che hanno le donne transgender è il loro diritto di vivere come desiderano e questo ci viene negato, siamo perseguitate. Mi sento emarginata perché mi stanno escludendo dalle competizioni", ha denunciato la giovane atleta in maniera accorata.
L'endocrinologo di Diouf, Alain Berliner, ha detto che la 21enne "è una donna, dal punto di vista fisiologico, ormonale e legale. I suoi livelli di testosterone sono attualmente al di sotto di quelli trovati in media nelle donne nate donne". A sostegno di queste parole, i risultati dei suoi campioni di sangue datati 2 maggio sono stati mostrati alla Reuters. Halba ha detto di non aver conservato nessuna foto di lei da ragazzo: "Quello non ero io", ha spiegato.
È l'ennesimo capitolo della dicotomia tra inclusività da un lato e dall'altro la certezza che le atlete transgender non godano di vantaggi non giusti nei confronti delle altre partecipanti alle competizioni femminili. I gruppi di attivisti LGBTQI insistono che escludere atleti trans equivale a una discriminazione, ma il presidente della World Athletics Sebastian Coe ha ribadito il suo punto di vista: "Le decisioni sono sempre difficili quando coinvolgono bisogni e diritti contrastanti tra gruppi diversi, ma continuiamo a ritenere che dobbiamo mantenere l'equità per le atlete al di sopra tutte le altre considerazioni".