Kobe Bryant, io sono leggenda
“Caro basket, sono pronto a lasciarti andare. Il mio cuore può sopportare la battaglia, la mia testa può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è il momento di dire addio. Questa stagione è tutto quello che mi resta”. Con la poesia su The Players Tribune, Kobe Bryant ha visto quel che tutti avevano già capito, ha realizzato quel che tutti già sapevano. Mi dispiace devo andare, il mio posto non è più qua. Il fisico non è più “unbreakable”, la magia del suo talento eterno non c'è più. Così, mentre Golden State celebrava un 111-77 che sa di storia, e non solo per il record di sedici vittorie di fila in apertura di regular season, un Bryant triste, solitario e già molto finale, si consegnava al tempo e alla storia con soli quattro punti e un misero ha scritto il Black Mamba, “ma non posso amarti più con la stessa ossessione”. È l'ammissione onesta di una leggenda, del terzo miglior marcatore nella storia della NBA, meglio anche di Michael Jordan (dietro solo a Karl Malone e a Kareem Abdul-Jabbar, che ha nutrito il suo senso per il basket con un'etica del lavoro ai limiti del compulsivo. E i 38 minuti di media a partita, con coach D'Antoni nel 2012-13, che l'hanno sfiancato fino alla rottura del tendine d'Achille a quattro partite dalla fine della stagione, raccontano l'inizio della fine. Ma non sono che una parte della storia.
Il primo agli allenamenti – Il resto è nel ricordo John Celestand, trentesima scelta assoluta al Draft del 1999, e compagno di squadra di Kobe nella stagione del suo primo titolo. Si erano già incontrati una volta nell'autunno del '96. Bryant era solo un ragazzino magro ma con le idee già chiare che faceva parlare di sé al liceo e si presenta nella camera di Celestand alla Villanova University. Celestand fatica a non ridere, quando gli sente dire che probabilmente non andrà al college per passare direttamente all'NBA. Ma quando tre anni dopo se lo ritrova in squadra, non ride più. “Arrivava sempre in allenamento un'ora e mezzo prima di tutti” raccontava Celestand nel 2005. “Mi faceva infuriare, ero sempre stato io il primo a Villanova e alla high-school, e per di più abitavo a 10 minuti dal campo di allenamento, lui ci metteva più di mezz'ora. In un match contro gli Wizards si rompe il polso destro. Mi vergogno a dirlo, ma ero quasi contento. Il giorno dopo, arrivo al campo e penso di essere il primo, ma sento il rumore di una palla che rimbalza. No, non può essere, pensavo. Può. Kobe era già lì, in un bagno di sudore. Portava un tutore al polso e tirava con la sinistra”. Valeva già allora quel che dirà dopo il periodo buio dei guai giudiziari e dell'accusa di violenza sessuale ai danni di una 19enne (nel processo penale l'accusa cadrà, Kobe ammetterà l'adulterio e patteggerà in sede civile per una cifra mai resa nota). “Devi diventare forte, una roccia. Sennò non sopravvivi. Il basket è la mia fuga da ciò che mi sta succedendo. Forse mi diverto più in allenamento che in partita”. Era il Bryant dell'era post-Shaq, nella sua prima trasformazione. Guardia di lusso, genio ed efficienza al servizio della squadra, da 25 punti, 5 assist e 5.7 rimbalzi a partita negli anni del Three-Peat, i tre titoli di fila dal 2000 al 2002 (anche se sull'ultima finale c'è l'ombra dello scandalo sulle scommesse illegali dell'arbitro Tim Donaghy, che ha confessato di aver truccato gara 6 per far vincere i Lakers e portare la serie a gara 7), smette dal 2003 di essere un giocatore inquadrabile e diventa un tiratore della miglior specie possibile. Sta già pensando, a 24 anni, come battere il tempo. “Ricordo quando a Philadelphia giocavo da solo nei playground, senza sapere in quale squadra sarei andato. Sognavo Magic Johnson, il mio idolo da quando avevo sei anni. Avevo fame di futuro, oggi invece comincio a pensare in termini di quanti anni mi sono rimasti”. Eppure il meglio deve ancora venire.
La leggenda – Ha già segnato, nel 2003, 55 punti in faccia a Michael Jordan, per quanto vecchio e atleticamente rivedibile. È il giorno in cui Bryant comincia a pensare di poter diventare l'erede di MJ, senza poter mai nemmeno avvicinare però la legacy di Jordan nella storia del gioco. “He had done the work”, dirà comunque di lui MJ nella sua autobiografia. “Ha fatto il lavoro”, è l'unico che può meritare il paragone. E l'autobiografia è precedente al 2005-2006, la stagione della leggenda: più di 35 punti di media, il 45% dal campo in 82 partite, sei volte sopra i 50 (solo Wilt Chamberlain e Jordan hanno fatto di meglio in una stagione sola). Cinque fanno da contorno, una fa la storia. È il 22 gennaio 2006, e contro i Raptors ne fa da solo 81, è la seconda performance più prolifica di sempre dopo i 100 di Wilt Chamberlain nella città del cioccolato, Hershey, immortalata da una registrazione radio presa per caso da uno studente di college con poca voglia di far baldoria nel weekend e dalla sua foto col foglio bianco e il 100 scritto a pennarello del fotografo Paul Vathis, Pulitzer del 1962 per lo scatto di Eisenhower e Kenendy di spalle a Camp David, che è all'arena per caso, ha comprato i biglietti per il compleanno del figlio. In quei 42 minuti, Bryant chiude con il 60% da due (21/33), il 53,8% da tre (7/13), e con 18/20 ai liberi.
La carriera – E' il punto più alto di una storia che ha il basket nel nome e nei geni. Figlio di Joe "Jellybean" Bryant, centro dei Philadelphia 76ers che ha chiamato suo figlio Kobe, come il soprannome che aveva da giocatore e la città da cui proviene una delle specie più prelibate di manzo giapponese, mette in pratica quel che diceva a Celestand. Salta il college e passa direttamente in NBA: è il sesto giocatore nella storia, la prima guardia a riuscirci. È la 13ma scelta al Draft del 1996. Lo prendono gli Hornets, che però di fatto stanno scegliendo per i Lakers: hanno già un accordo per scambiarlo con Vlade Divac. A 18 anni, è il più giovane nel quintetto titolare in un match di NBA e all'AllStar Game, e il più precoce a vincere l'NBA Slam Dunk Contest, lo show delle schiacciate. Firma un contratto da 70 milioni di dollari e, con Phil Jackson in panchina e una convivenza sopportata col sempre più ingombrante Shaquille O'Neal, vince tre titoli di fila. “Con Jackson non andiamo a cena assieme, non siamo amici. Ma il rapporto coach-giocatore è ideale. È conflittuale il giusto, perché entrambi amiamo le sfide. Senza Phil non sarei diventato quello che sono”. Ne resta solo uno, alla fine. Jackson se ne va, Shaq pure. Il divo è Kobe, la prima donna che fa valere il privilegio in virtù dell'appeal e del risultato: la gente paga per lo show, e lo show ha un volto e un nome solo, il suo. Vince altri due titoli, nel 2009 e nel 2010, e diventa il miglior marcatore di sempre nella storia dei Lakers. Ma gli infortuni aumentano (ginocchio, caviglia, tendine d'Achille, cuffia dei rotatori), e le assenze si allungano. Fino alla decisione inevitabile di abbandonare, a 37 anni.
Farewell tour – Se ne va “il più forte giocatore della mie generazione”, come l'ha accolto Dwyane Wade a Miami, in quello che è diventato l’inizio ufficioso del suo ultimo giro di giostra. Un Farewell Tour che vivrà l'ultima tappa allo Staples Center, il 13 aprile contro gli Utah Jazz. Una partita che non avrebbe avuto significato, e che adesso diventerà uno degli eventi più caldi della stagione e di tutta la storia sportiva di Los Angeles. L'ultimo saluto a una leggenda che ha iniziato con i calzettoni arrotolati del padre e si è cucito addosso la maglia dei Lakers dal 1986. L'icona moderna del basket che la sua storia la conosceva prima ancora di viverla. Alla sua prima stagione, ricorda Gary Payton, “sul bus mi disse: sarò il miglior marcatore di sempre dei Lakers, vincerò cinque o sei anelli, diventerò il migliore di questo sport. Sarò il Will Smith dell'NBA”. He had done the work.