video suggerito
video suggerito

Il GP del Bahrain si farà: proteste e torture non fermano il Circo di Ecclestone

Il Gran Premio di Formula Uno del Bahrain si farà. Lo dice Bernie Ecclestone, lo dice la FIA. E se anche qualche team tentenna per paura delle proteste antigovernative o di possibili attentati, Ecclestone non molla: il GP s’ha da fare. Intanto la rivoluzione bahrenina continua, nonostante le torture, gli arresti, gli assassinii, la repressione, la censura. Nonostante la F1.
A cura di Anna Coluccino
8 CONDIVISIONI
boycott-formula-1-in-bahrain-2012

Gran parte del mondo conosce lo stato del Bahrain esclusivamente per la tappa del Gran Premio di Formula 1 che – fin dal 2004 – si disputa all'interno del Bahrain International Circuit. I più attenti, forse, ricorderanno che tale tappa fu già soppressa lo scorso anno a causa delle accese proteste che i bahreini avevano avviato contro la dinastia Al Khalifa (minoranza sunnita che, tra alti e bassi, è al potere da quasi due secoli e gode dell'appoggio politico dell'Arabia Saudita). Il colpevole silenzio mediatico che ha circondato e circonda gli accadimenti che da oltre un anno vanno in scena nel piccolo paradiso fiscale del Bahrain – nazione che conta poco più di un milione e duecentomila abitanti, ma che è ricca di giacimenti petroliferi e pietre preziose – non aiuta la comprensione riguardo il perché, anche quest'anno, siano in molti a chiedere che il Gran Premio di Formula 1 non sia disputato. Lo chiede Amnesty International, lo chiedono molti osservatori e artisti internazionali, lo chiede la popolazione. La ragione del boicottaggio è molto semplice: in questo momento in Bahrain i diritti civili vengono quotidianamente calpestati, la violazione dei diritti umani è frequente e diffusa e, per molti, non è possibile fingere per un paio di giorni che tutto ciò non esista, consentendo alla Formula 1 di mettere in scena il suo gran circo mediatico.

Stando a quanto affermato da Bernie Ecclestone, incontrastato padrone del semisconosciuto impero economico-finanziario soggiacente la Formula Uno, e dal presidente della FIA (Fédération Internationale de l'Automobile) Jean Todt, non c'è ragione di sospendere la tappa mediorientale perché non sussistono comprovate ragioni di rischio per la sicurezza dello show. Le automobili, il pubblico, i campioni, i team, i giornalisti, gli sponsor e tutti le fantasmagoriche comparse del mirabolante circo della F1 sono completamente al sicuro e libere dal rischio di attentati terroristici o invasioni del circuito. Tutto regolare. Tutto nella norma. Perciò, il prossimo 22 aprile, nessuno potrà impedire agli appassionati di Formula 1 di pasteggiare, ridere, emozionarsi, stappare champagne e brindare alla vita. E a chi importa se, a pochi metri di distanza e con il beneplacito del re seduto in prima fila accanto ad Ecclestone, uomini innocenti muoiono per la fame o per le botte? Evidentemente, il fatto di danzare sulla miseria di un popolo in lotta come se i problemi di cui chiede la risoluzione non esistessero, come se il tiranno di cui invocano la caduta fosse il legittimo governante, per Ecclestone & Co non è eticamente riprovevole. In fondo: the show must go on.

Bahrein_vignetta_repressioni

La tappa in Bahrainm, quindi, si disputerà. Questo Ecclestone ripete da giorni e ora anche la FIA gli fa eco. Solo i team non sono granché convinti della decisione, ma il buon Bernie ha già fatto loro sapere che "se alcuni team non vogliono correre sono liberi di farlo, non posso obbligarli, però devono accettare anche le conseguenze economiche di questa decisione". Il punto, ovviamente, è di natura squisitamente economica. La tappa in Bahrain è una delle più redditizie per Ecclestone – il piccolo stato sborsa ben 45 milioni di dollari per ospitare il Gran Premio – e se lo scorso anno la monarchia versò il gettone nonostante il sopraggiunto annullamento della gara, quest'anno non lo farà. Ecco perché Bernie non tentenna nemmeno un istante nell'affermare di essere "sicuro al 200 percento" che la gara verrà disputata. E del resto non c'è di che stupirsi se si considera che, in una celebre intervista rilasciata al Times, Ecclestone dichiarò candidamente (salvo poi pentirsi di aver espresso le proprie idee in modo "così maldestro") che nutriva grande ammirazione per Hitler e che, in generale, preferiva i regimi totalitari a quelli democratici. Nessuno stupore, quindi, davanti al fermo rifiuto di Bernie di annullare la tappa in Bahrain, ma la verità è che – considerata la situazione – una tale, cinica noncuranza potrebbe risultare generatrice di rabbia violenta, scatenando proteste dall'esito incerto e potenzialmente tragico. Per capire quanto il rischio sia concreto, però, occorre realizzare un breve excursus storico.

La primavera araba in Bahrain

Per il popolo bahrenino, la rivoluzione del 14 febbraio 2011 è molto più di un istantaneo focolaio di protesta. Al centro della rivendicazione non c'è solo una reazione alla prepotenza che la minoranza sunnita al potere usa per imporsi sulla maggioranza sciita; quello che i bahrenini chiedono ha a che fare con la medesima spinta democratica che ha animato e anima l'intera regione. Il cuore della protesta – infatti – ruota intorno alle richieste di libertà politica, di eguaglianza sociale e religiosa, di riforme costituzionali e di rispetto dei diritti civili. Il 14 febbraio 2011, il popolo del Bahrain è sceso in piazza per ottenere tutto questo ma, ben presto, di fronte alla reazione violentemente repressiva del potere, i bahrenini hanno cominciato a chiedere soprattutto la fine della monarchia di re Hamad. Infatti, a solo quattro giorni dall'inizio della protesta, il 17 febbraio 2011, re Hamad autorizza un inqualificabile, barbaro massacro che viene ricordato dagli attivisti con l'espressione: Bloody Thursday, il Giovedì di Sangue.

Poco prima del sorgere del sole, il 17 febbraio 2011, la polizia lancia un attacco mortale all'indirizzo dei manifestanti accampati a Pearl Roundabout, nella capitale Manama (la maggior parte di essi dormiva all'interno delle tende). La forze di sicurezza bahrenine tempestano la zona di gas lacrimogeni, sparano raffiche di birdshot; alle ambulanze viene impedito di soccorrere i feriti, nessuno è immune, neanche medici e giornalisti. Nel pomeriggio sopraggiunge l'esercito, le strade vengono sbarrate da carri armati, ogni via di fuga è bloccata. Al temine degli scontri, il bilancio è di quindici morti, seicento feriti, settanta dispersi. Ma la protesta non si ferma. Il re decide allora di allertare le forze di sicurezza dei governi amici del Consiglio di Cooperazione del Golfo per affrontare la situazione in maniera "radicale". Dal 14 marzo e per i successivi tre mesi il Bahrain vive in "stato di emergenza" e sotto regime di corte marziale. Il 18 marzo 2011 l'arroganza del potere arriva ad abbattersi persino sui simboli oltre che sulle persone. E così re Hamad sancisce lo sgombero coatto di Pearl Roundabout e la demolizione del monumento che campeggia al centro della rotonda; monumento che rappresenta l'amicizia tra i sei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo e che, secondo il re, è stato "violato e dissacrato dalle vili proteste antigovernative e deve essere purificato". Il desiderio di pulizia, di cancellazione della memoria, di abbattimento di ogni simbolo di rivolta è così urgente che il governo non prende neppure le necessarie misure cautelative, rendendosi di fatto colpevole della morte di un lavoratore, colpito da un arco di cemento in caduta.

bahrain-proteste

Nonostante la dura repressione, le proteste non si sono fermate a un anno fa. Sono andate avanti, senza sosta, sebbene per piccoli focolai, fino a che – appena un mese fa, il 9 marzo 2012 – migliaia e miglia di persone sono scese in strada per protestare contro il governo. La reazione della polizia, secondo gli osservatori internazionali e i reporter presenti sul posto, è stata brutale. Manifestanti pacifici e disarmati, giornalisti e medici, tutti sono stati pestati con furia cieca, senza pietà. Tremila le persone arrestate, di queste cinque hanno perso la vita in seguito alle torture subite in carcere. Del resro, l'uso sistematico della tortura da parte del governo di re Hamad è un dato acquisito, e la giustificazione apportata dal governo secondo cui i manifestanti sarebbero "manovrati dagli sciiti iraniani" si è rivelata del tutto infondata. Sono ormai moltissime le organizzazioni non governative che denunciano gli abusi e le violazioni dei diritti umani perpetrate in Bahrain.

Conclusioni

Alla luce di tutto questo, come si può pensare di entrare in Bahrain in pompa magna, piazzare al centro il proprio circo di denaro, spettacolo, velocità ed eccesso, facendo finta che tutto intorno sia assolutamente normale? O peggio ancora contribuendo a un forzato ritorno alla normalità, dove per normalità si intende il riproporsi del colpevole silenzio sull'intera vicenda? È pur vero che la politica internazione non si comporta assai meglio dello sport o dello show business. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (i cui membri, insieme al Bahrain, sono Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti) continua a esprimere solidarietà alla monarchia di Hamad mentre le Nazioni Unite, l'Europa e gli USA si limitano a esprimere una vaga "preoccupazione" che non ha saputo tradursi neanche in una stigmatizzazione sia pure verbale dell'accaduto. La ragione di una tale tepidità di giudizio da parte degli USA, una delle nazioni più inclini a vivere con il dito indice puntato sugli altri, è che gli interessi statunitensi sono troppo legati a quelli delle nazioni che compongono il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il governo del Bahrain – in particolare – è un governo amico, tanto che proprio su una piccola isola dell'arcipelago è stanziata la Quinta Flotta della marina statunitense, avamposto fondamentale per il controllo della circolazione del greggio e per tenere il fiato sul collo al nemico iraniano.

In fin dei conti, dal punto di vista di Ecclestone, se persino capi di governi "democratici" non hanno remore a discutere con re Hamad come se fosse il legittimo rappresentante degli interessi del suo popolo, per quale ragione dovrebbe porsi il problema lui che è un "semplice" uomo d'affari? E allora ben venga sedersi accanto a un tiranno, accettare il suo denaro e fingere di non sapere che, ad esempio, c'è un uomo – l'attivista Abdulhadi al-Khawaja – che persevera da quasi due mesi in uno sciopero della fame che sta per costargli la vita, il tutto per protestare contro una carcerazione ingiusta e priva di qualsivoglia fondamento. Del resto, come si dice? Occhio non vede, cuore non duole. Per cui la cosa davvero importante, alla fine, è preoccuparsi di tenere miseria, rabbia, sangue e proteste ben nascoste, lontane dai sensibili occhi dei lavoratori e degli amanti del circo. In fondo, da quelle parti, il circo ci passa solo una volta l'anno.

8 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views