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Il coraggio nella sofferenza, il messaggio più bello e ancora oggi vivo di Jonah Lomu

È il 18 giugno 1995. Dopo pochi minuti dall’inizio della semifinale mondiale fra Nuova Zelanda e Inghilterra, Jonah Lomu fa una delle azioni più incredibili e iconiche della storia del rugby. Tutti pensavano che da quel momento sarebbe iniziata una delle carriere più sfolgoranti di sempre, ma Jonah Lomu dovette subito frenare per una terribile malattia renale. Nel 2015 è morto ma il suo coraggio nella sofferenza è ancora oggi indimenticabile.
A cura di Jvan Sica
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Se si pensa a Jonah Lomu, anche per chi è lontano dal rugby ma è semplicemente un normale appassionato di sport, in mente viene subito un’immagine, della durata di due secondi. 18 giugno 1995, Newlands Stadium di Città del Capo, si sfidano Nuova Zelanda e Inghilterra nella semifinale dei Campionati del mondo. Siamo sullo 0-0, la palla viene aperta da Graeme Bachop all’ala in maniera sbagliata. Lomu deve fare due passi indietro per prenderla, tiene giù il primo placcatore inglese, Tony Underwood, e prende velocità.

Il secondo, Will Carling, cerca di placcarlo ma lui scappa perché ha uno sprint sensazionale. D’altronde fa i 100 metri in 10”8. Davanti a lui c’è un altro inglese, Mike Catt, ben piantato con i piedi a terra, in posizione di placcaggio, una situazione perfetta per fermarlo. Lomu cozza contro di lui e letteralmente lo travolge, atterrandolo e andando in meta. In quella partita segnerà quattro mete e permetterà agli All Blacks di disputare la finale contro il Sud Africa, quella che poi verrà raccontata nel film “Invictus”.

“Non sto scherzando. Non avrei mai potuto marcare, anzi, ancora non riesco a capire come abbia fatto a superare la linea di meta. Fui fortunato, ma una cosa la so per certo, e cioè che non avrei mai marcato quella meta se non fosse stato per Mike Catt. Una volta rotto il placcaggio di Tony Underwood ero in equilibrio precario, solo lo slancio mi aveva tenuto in piedi, ma sentivo che la gamba stava cedendomi e stavo per cadere in avanti; ero tentato di fare uno scarico al compagno più vicino, quando subii il placcaggio di Catt che mi riallineò la gamba in assetto di corsa; ciò mi diede lo slancio finale per giungere a meta. Senza il suo placcaggio sarei caduto prima. Ho incontrato Catt un altro paio di volte da allora: è un bravo ragazzo e perciò non ho mai avuto il coraggio di dirglielo”.

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In quel momento Lomu aveva già un po’ di record, tra cui l’essere stato il più giovane, a 19 anni, un mese e 14 giorni, ad aver giocato con gli All Blacks. L’esordio avvenne il 26 giugno 1994, a Christchurch contro la Francia. Con quell’edizione dei Mondiali, quella semifinale e quella meta però Lomu fa qualcosa di più. Fa diventare il rugby qualcosa di planetario e quindi di economicamente allettante, aiutandolo a sfondare la porta del professionismo.

L’anno successivo infatti nacque il consorzio SANZAR e fu istituita il Super Rugby, Lomu era la faccia di tutto ed entrò a fare parte, a partire dal 1996, della franchise degli Auckland Blues. Vinse subito due Super Rugby, ma mentre tutto intorno accelerava lui dovette frenare, perché gli fu diagnosticata una disfunzione renale che poi con controlli più accurati si capì essere una sindrome nefrosica. “Una mattina, alla prima trasferta, mi svegliai e vidi Lomu che si vestiva: 118 chili senza un'oncia di grasso. Ho capito che era meglio smettere di giocare”. – John Kirwan

Come scrive meravigliosamente Marco Pastonesi nel suo libro “”L’uragano nero”, era quasi impensabile che l’essere umano più potente del pianeta, 118 chili di muscoli su un corpo di 1,96 potesse essere invece così fragile. I due anni successivi furono molto difficili nonostante le vittorie con la squadra di club. In Nazionale saltò tante partite ma fu disponibile per i Mondiali del 1999. Giocò di nuovo con grande potenza e seppe far fruttare anche una nuova consapevolezza tattica che aveva guadagnato con il tempo. Fu grazie a questo Mondiale concluso al quarto posto, che è diventato il giocatore con più mete nella competizione massima per il rugby delle Nazionale, andando a segno per 15 volte come saprà fare successivamente solo il sudafricano Bryan Habana. “Forse con un fucile da caccia per elefanti potevi fermarlo”. – Brian Moore

Negli anni successivi il declino dovuto principalmente alla malattia fu più evidente. Cambiò due volte franchigie, passando ai Chiefs e poi agli Hurricanes, ma nel 2003 dovette sospendere l’attività agonistica perché era in dialisi per tre volte a settimana. Nel 2004 trovò un donatore, lo aiutava il suo amico fraterno, lo speaker radiofonico Grant Kereama, e il trapianto finalmente ebbe successo. “Ricordatevi che il rugby è un gioco di squadra. Gli altri 14 si ricordino di dare palla a Jonah”.

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Il fisico però era stato troppo affaticato e Lomu non era più quella macchina selvaggia e in controllo della sua giovinezza. Giocherà ancora coi Cardiff Blues, esordendo proprio in Italia, contro Calvisano, in Heineken Cup, allo Stadio San Michele. L’accoglienza del pubblico italiano fu meraviglioso e tutti si alzarono in piedi per salutarlo quando entrò in campo.
Ma non era più lui e tutto finì abbastanza presto e con tristezza nel 2007 con il ritiro. Tornò due anni dopo per giocare sette partite con il Marseille-Vitrolles nella terza lega francese. Nel 2009 disse basta definitivamente. Purtroppo a non dire basta fu la malattia, che ritornò nel 2011 e di nuovo si ripartì con dialisi, una terapia conservativa dell'organo, ma appena quattro mesi più tardi, nel febbraio 2012, i sanitari gli comunicarono la necessità di un nuovo trapianto. Però questa volta il donatore non c’era. “Sono veramente fortunato. Ho già vissuto in questa vita più di quanto altri facciano in sei o sette. Essere umani implica che un giorno tutti dobbiamo morire”.

Le cose andarono sempre peggiorando e il 18 novembre 2015 un arresto cardiaco, per i medici causato dai problemi ai reni, mise fine alla sua vita. Ancora oggi è ricordato per quel Mondiale, quella partita, quella meta. Ma anche per tanto altro e non solo associato al rugby. Lomu ha dimostrato coraggio nella sofferenza e forse è questo è stato il suo messaggio più forte.

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