Gli inglesi accusano ancora il colpo, stavolta nel mirino c’è Jacobs: “È stata la finale di Google”
Marcell Jacobs è medaglia d'oro alle Olimpiadi di Tokyo nella specialità regina dell'atletica leggera, i 100 metri, ed ancora quasi facciamo fatica a crederci. Ma è tutto vero, meravigliosamente vero. Il velocista di Desenzano del Garda ha stampato in faccia al mondo un 9"80 stellare, proprio nel giorno più importante della sua carriera. Qualcun altro vorrebbe non crederci, ed invece – ahi loro – è meglio che la finale se la rivedano più volte, smettendo di darsi pizzicotti. E smettendo anche di pubblicare pezzi antisportivi come quello di oggi sul Daily Mirror.
Rieccoli gli inglesi, incapaci di riconoscere i meriti italiani, soprattutto quando nella stessa vicenda sono coinvolti sudditi di Sua Maestà. È successo ai campionati Europei dopo la vittoria in finale degli uomini di Mancini, con deliranti petizioni per rigiocare la partita, succede ora con alle Olimpiadi, denigrando il livello della finale di Tokyo. Per capire bene il livello di sofferenza che trasuda dal pezzo del Daily Mirror, bisogna andare al momento della prima partenza dei 100 metri, quando Zharnel Hughes si è fatto squalificare per una sesquipedale falsa partenza. Sul 26enne di origini anguillane si appuntavano le grandi speranze inglesi, alla luce di un personale di 9"91. Ed invece la delusione è stata enorme, senza neanche poter seguire la gara.
"Per gentile concessione della sua falsa partenza – si legge nell'articolo del Mirror – Hughes mancava da quello che è sempre stato l'evento clou dei Giochi Olimpici, ma mancava anche un certo Usain Bolt. Il mondo sapeva da molto, molto tempo che Bolt non ci sarebbe stato a Tokyo 2020. Dopotutto, si è ritirato dallo sprint nel 2017. Ma quando gli atleti si sono sistemati sui blocchi, l'assenza di Bolt è apparsa in qualche modo ancora più cruda. Con tutto il rispetto per l'eccezionale Marcell Jacobs, questa è stata la finale di Google".
Ovvero – secondo il giornalista del Mirror – era necessario andare su Google per sapere chi fossero i finalisti, a suo dire perfetti sconosciuti. Inutile dire che non lo era il canadese Andre De Grasse, tre volte medagliato a Rio de Janeiro, né gli americani Fred Kerley e Ronnie Baker, usciti da Trials statunitensi di livello altissimo con tempi sotto i 9"90. Ed ancora il cinese Su Bingtian, primatista asiatico e medaglia ai Mondiali di Pechino. Insomma, su Google è andato a cercare informazioni chi era ignorante, nel senso che ignorava assolutamente la materia di cui era chiamato a parlare o scrivere.
Il Mirror cita il commento a caldo di Fred Kerley, piazzatosi secondo dietro Jacobs, per gettare discredito anche sull'atleta azzurro: "La medaglia d'argento americana Fred Kerley ha detto del vincitore: ‘Davvero non sapevo nulla di lui'. Non eri solo, Fred. La gente non sapeva se chiamarlo Marcell, Lamont o entrambi. E ad essere onesti, non è neanche che Fred Kerley sia un nome familiare. Quello è il problema. Nello sprint maschile in questo momento, i nomi familiari sono in pensione o contaminati. Niente Bolt, niente Christian Coleman, che sconta una squalifica per aver saltato tre test antidroga. E con l'uomo più veloce del mondo quest'anno, Trayvon Bomell, eliminato in semifinale, questo è stato un evento senza la consueta polvere di stelle".
In tutta onestà, noi qua vediamo un solo problema. Ed è nell'incapacità di accettare in maniera sportiva il successo altrui, senza doverlo oscurare con dubbi, riserve e distinguo. Marcell Jacobs è campione olimpico di una finale in cui tutti i partecipanti sono scesi sotto i 10 secondi, i primi tre sotto i 9"90. Il resto è rumore di denti, peraltro ben riconoscibile anche a migliaia di chilometri di distanza.