Cinque anni senza Muhammad Ali, il primo sportivo ad andare oltre
Quando, esattamente cinque anni fa, Muhammad Alí si spegneva come la fiaccola che egli stesso aveva faticosamente acceso al braciere di Atlanta in occasione delle Olimpiadi di vent'anni prima, il mondo intero si fermò e pianse. L'agonia di colui che per molti è stato il pugile più importante della storia e che per egli stesso era ‘The Greatest', era durata oltre trent'anni, dal momento in cui nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Una conseguenza quasi logica dei tanti colpi presi da chi più che un pugile era un nobile ballerino del ring, seguendo il mantra da lui stesso creato che recitava "Vola come una farfalla, pungi come un'ape". La raffica di botte alla testa prese da George Foreman nel famoso incontro del 30 ottobre 1974 a Kinshasa venduto al mondo come il celebre ‘Rumble in the Jungle' fu solo la più significativa delle scariche di adrenalina che gli diedero contemporaneamente gloria e dannazione.
Orgoglio nero
Nato in una famiglia di classe media ma cresciuto in un ambiente difficile dell'entroterra statunitense nell'immediato dopoguerra, Cassius Clay iniziò a tirare di boxe a 12 anni quando, su consiglio di un agente del quartiere, prese ad allenarsi per dare una lezione a un bullo che gli aveva rubato la bicicletta. Il caso fece nascere una leggenda che a 18 anni, e dopo un volo nel quale si abbracciò spaventato a un paracadute comprato in un negozio di indumenti per militari, si presentò a Roma per stravincere l'oro nella categoria dei pesi massimi, sancendo così il suo ingresso nel mondo dei professionisti. Fu però nel 1964 che, dopo aver strappato il titolo mondiale a Sonny Liston contro ogni pronostico, la sua vita cambiò del tutto.
L'incontro con Elijah Muhammad, che presiedeva la Nations of Islam, lo avvicinò non solo alla religione musulmana ma anche e soprattutto a un sentimento d'identità razziale che lo riportò indietro nel tempo. Consapevole dei soprusi ai quali in quel tempo i neri venivano sottoposti dalla società nordamericana e memore del gesto ribelle perpetrato nove anni prima dall'attivista di colore Rosa Parks (che non lasciò il suo posto a sedere su un autobus a un bianco), Clay divenne Muhammad Alí, prendendo in adozione il nome del profeta dell'Islam e del suo genero. Proprio nel 1964, anno in cui i Beatles diventavano i re del pop, Alí creò quasi senza volerlo un polo alternativo di ribellione popolare, un movimento culturale a sé stante e rivoluzionario. Accompagnato sempre dal suo fedele preparatore Angelo Dundee, di origini italiane, e dal secondo Drew Bundini Brown, un afroamericano convertito all'ebraismo, Alí aveva dato un esempio mondiale di tolleranza e convivenza tra diverse culture e fedi che lo proiettò in una dimensione mistica ben oltre le corde del ring.
Oltre lo sport
"Perché dovrei andare in Vietnam a uccidere i Viet Cong? Loro non mi hanno fatto nulla, non mi hanno mica chiamato ‘negro'". Questa sua celebre frase durante un'intervista telefonica, alla quale l'allora campione dei pesi massimi aveva deciso di rispondere nel 1967 dopo essere stato chiamato per imbarcarsi per la guerra del Vietnam, avrebbe provocato un fortissimo terremoto mediatico. Ma non solo. La sua condizione di obiettore di coscienza legata a quella di difensore dei diritti dei meno fortunati lo rese un'icona della libertà, facendo di lui il primo personaggio sportivo ad andare veramente oltre l'agone. Dopo quattro anni di ingiusta squalifica per renitenza alla leva e due storici incontri con il possente Joe Frazier, uno perso e l'altro vinto a fatica, venne avvicinato dall'ambiguo manager Don King, un ex allibratore di Cleveland con la fedina penale sporca ma con le conoscenze giuste per racimolare denaro a sufficienza per organizzare l'incontro del secolo. Il Rumble in the Jungle in Zaire, fortemente voluto dall'allora sanguinoso dittatore Mobutu Sese Seko, fu organizzato come evento mondiale di rivincita della Madre Africa nel quale i due pugili del momento, entrambi con evidenti origini nel continente nero, si sfidarono senza riserve.
Il simbolismo di quell'incontro raggiunse picchi d'enfasi assoluti e mai più raggiunti da un match di boxe. Le urla dei presenti che gridavano "Ali bumayé" (Alí uccidilo) riecheggiano ancora oggi nella memoria di questo sport. A 32 anni, colui che si iniziò alla boxe come Cassius Clay sconfisse all'ottavo round per KO un ragazzo di sette anni in meno e nel pieno della forma, dimostrando una resistenza fuori dal comune e un'apologia del sacrificio che poi gli avrebbero presentato il conto più avanti.
La grandezza di Alí risiedeva proprio in quella voglia di rivincita infinita che da quando gli rubarono una bici da adolescente aveva sviluppato come un fuoco al suo interno. Una rivincita sportiva, umana e sociale che ancora oggi fa scia ogni volta che si pronuncia il nome del più grande atleta di sempre.