Bebe Vio a Fanpage: “Tante cose non ho il coraggio di raccontarle, ora vivo per il mio sogno”
Alla domanda sui prossimi impegni Bebe Vio sorride e risponde: "Parigi 2024". Nessun pronostico, come scaramanzia impone. Eppure questa giovane donna di 25 anni ne ha ribaltate molte di "profezie", anche quelle su cui non avrebbe mai scommesso nessuno. La previsione più importante è scritta sul suo corpo. Sarebbe stato difficile, dopo l'amputazione di gambe e braccia a 11 anni a causa di un'infezione da meningococco, immaginare di avere di fronte la più affermata atleta paralimpica degli ultimi anni. Quando racconta della sua ultima Olimpiade non tralascia la fatica, ma anche la fortuna di esserci, di poterlo raccontare. Un oro quello di Tokyo, che l'ha consacrata definitivamente (qualora ce ne fosse ancora bisogno), non solo come sportiva, ma come simbolo. Un ruolo a volte complesso che lascia poco spazio alla sua privacy, ammette nel corso dell'intervista. Ma che rappresenta anche una grande possibilità. Quella di precorrere tempi e infrangere barriere. Come l'ultima, che con la scherma non ha nulla a che fare. Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, più nota come "Bebe", ha preceduto anche la Corte Costituzionale, decidendo un anno fa di aggiungere il cognome della madre a quel "Vio" da parte di padre. Quando ancora nessuna legge lo suggeriva, Bebe ha trovato la risposta, come spiega a Fanpage.it in una lunga chiacchierata con vista sui WEmbrace Games, l'evento benefico organizzato da lei stessa che torna dopo i due anni di stop a causa della pandemia. Appuntamento con i Giochi Senza Barriere per lunedì 13 giugno allo Stadio dei Marmi, a Roma, per una serata all'insegna dell'integrazione.
Come mai la scelta del doppio cognome, un anno prima della decisione della Corte Costituzionale?
«Mi chiamo Beatrice, perché tutti abbiamo un primo nome, Sole, Niccolò (sua sorella e suo fratello ndr). Poi abbiamo tutti Maria, infatti mia sorella si chiama Maria Sole, mio fratello è Niccolò Valentino Giorgio Maria, quindi lui lo ha per ultimo. Mio fratello ha i nomi dei nonni, mia sorella ha i nomi delle bisnonne e io le nonne. Più i doppi cognomi. È un casino, il riassunto è un casino, infatti Bebe è facilissimo. Adesso è una cosa diventata normale, un po' di tempo fa non lo era. Ci abbiamo messo un sacco perché è stato veramente un casino fare tutte le pratiche. L'abbiamo fatto perché pensavamo fosse giusto nei confronti di mamma, della famiglia di mamma, avere quella parte di storia con noi».
Prima delle ultime Olimpiadi non eri sicura di arrivare a Tokyo.
«Sì è stata tosta perché pochi giorni prima dell'Olimpiade ci hanno detto "Guarda, ti stiamo per amputare un altro pezzo, questa infezione è andata avanti, quindi sta andando tutto un po' a quel paese". La parte tosta è stata non dirlo, non perché volessi compassione nei confronti degli altri, assolutamente. Ma perché era una cosa che mi dovevo gestire io. Dicendo io intendo tutte le persone che avevo intorno a me, tutto il mio gruppo di amici, la mia famiglia, le persone che dovevano custodire quel segreto, per far sì che non uscisse anche con gli avversari. Essendo uno sport di combattimento, se sanno che ti fa male un punto, la prima cosa che vanno a colpire è quello. E tu la gara l'hai finita. La paura non solo era non arrivarci, non solo arrivarci in qualche modo tutta intera, relativamente intera per quello che fosse rimasto. Non avevo la certezza di superare match per match. Perché la mia arma era quella cosa lì che non funzionava. Che avevo paura si potesse rompere da un secondo all'altro. Era un voglio dare tutto, ma non so se sono in grado di dare tutto, se do quel poco di più rischio di farmi male, se non do abbastanza perdo. A livello fisico è stato difficile, proprio doloroso. Però la cosa stupenda è che in quel momento a fare il match con me, c'erano tutte le persone che mi avevano aiutato ad arrivarci. Il mio preparatore atletico si metteva a piangere prima di ogni match, perché aveva paura non arrivassi alla fine. Io forse ero la prima a non crederci realmente fino alla fine. In quel momento la squadra è stata tutto».
Oltre la Bebe atleta c'era la persona, che doveva gestire quel momento complesso.
«La mia fortuna è stata il mio gruppo di amici che mi è stato vicino, perché diciamo che non ero una persona molto piacevole in quel periodo. Mi piangevo addosso tutto il tempo. Volevo andare in palestra ma solo per far vedere ai miei compagni di squadra che stessi bene. Non perché effettivamente stessi bene in palestra. Mi faceva proprio male fare gli allenamenti. In quel momento l'allenatore è quella persona che ti asciuga la lacrima, poi ti da un ceffone e dice: "Ora riparti, hai rotto le palle di metterti a piangere, di dire non ce la faccio. Non ce la fai? Vai avanti, se hai la testa puoi fare veramente tutto". La forza è stata avere tante persone che mi volevano veramente bene intorno, che volevano ottenere quella cosa lì forse più di me in quel momento».
Hai scelto di lavorare con i bambini, immagino abbia a che fare con quello che hai vissuto tu da piccola.
«Sono entrata nel magico mondo della disabilità quando ero molto piccola, avevo 11 anni. Il mondo che immaginavo era un mondo molto normale. Ma, nel momento in cui sono uscita dall'ospedale, immaginando di tornare alla normalità, non era normalità. Venivo vista in maniera diversa, considerata in maniera diversa. Non dai miei amici stretti, perché alla fine conoscendomi prima e conoscendomi dopo, per loro non cambiava niente. Ero la stessa identica persona. Però, come gli altri mi vedevano era un'altra storia. Volevo tornare in palestra e avere la facilità di stare in palestra e questa cosa non era fattibile. Andare in giro per strada e non essere guardata in modo strano. Poter far tutto ma senza che le persone mi dicessero "poverina". All'inizio è stato molto difficile, ma con la fortuna di avere una famiglia che sdrammatizza su tutto è stato molto più facile. Ho avuto la fortuna che altre famiglie non hanno avuto. Genitori che altre famiglie non hanno. Dei fratelli che hanno sempre visto la disabilità come un gioco, invece di "mia sorella non può fare questo". Non c'è mai stato il dubbio di poter far qualcosa, ma la voglia di mettersi insieme e ottenere quella cosa. Il mio sogno è quello di riuscire a realizzare il mondo che avrei voluto da piccola. Accessibilità per tutti, dove lo sport è una cosa normale. Vedere un ragazzo in carrozzina o con una protesi che fa scherma, che fa basket, che fa tennis, che corre insieme ai ragazzi normodotati».
Se potessi dire qualcosa alla Bebe di 11 anni, che scopre il mondo della disabilità, che diresti?
«Ho avuto la fortuna di avere papà che in quel momento mi ha detto la cosa giusta, che mi sarei voluta sentir dire. Ha detto stai zitta che la vita è una figata. A me è bastato quello per capire che non aveva senso lamentarsi, ma solo vai e goditi le cose e lavora per ottenerle. Secondo me nella semplicità di quanto è bello esserci, quanto è bello lottare per ottenere qualcosa, alla fine non ti serve niente di più».
C'è stato un momento in cui qualcuno ti ha fatto pesare la tua disabilità o in qualche modo ti ha fatto sentire discriminata?
«Forse all'inizio di più e forse anche quando cambio Paese. Perché dipende tanto dal Paese in cui sei per come vedono la disabilità. In tanti posti ancora ti guardano strano, in tanti posti ancora non accettano la disabilità, per tanti Paesi e religioni la disabilità non esiste. Il che è proprio strano, come puoi pensare che nel tuo Paese non esista la disabilità? Semplicemente perché andando avanti con quel tipo di cultura le persone con disabilità non escono di casa. Allora tu sembri il demonio che ha il coraggio di andare in giro così, "ma non ti vergogni?". Quella cosa lì, ogni tanto mi fa strano. Però penso abbia dato più fastidio a mia madre che a me».
Tu hai fatto una cosa qualche anno fa molto importante e riguarda la narrazione sulla disabilità. Una bambina sulla sedia a rotelle voleva farti una domanda sulle protesi. Hai capito che non riusciva a farla. E te la sei tolta mostrandogliela. Bisogna essere più diretti?
«Credo molto nella mentalità del bambino, di avere la curiosità di scoprire le cose invece della mentalità dell'adulto, che preferisce non chiedere per paura di essere indiscreto e quindi non avrà mai una risposta. Rimarrà con il dubbio, la paura di quella cosa lì che non conosce, per sempre. Il bambino viene là e ti chiede, ha bisogno di vedere in modo pratico cosa sta succedendo. La mano non ci credi che è vera? Non ci credi che è finta? Tieni me la stacco e te la do, funziona così. Si toglierà tutti i dubbi del mondo. E quel bagaglio culturale se lo porterà avanti per tutta la vita. Vedrà la disabilità in modo completamente diverso».
Se non ci fosse stata la scherma nella tua vita, che avresti fatto?
«Il mio sogno era giocare a rugby. E avere un negozio di vestiti per bambini, questi erano i miei due sogni. Il rugby lo guardo non lo gioco, già mi faccio male così figurati giocando a rugby, sarei distrutta. Quando sono andata in Giappone ho visto un negozio di vestiti per bambini che si chiama Bebe ed ero molto felice. Mi sto comprando tutti gli asciugamani con la scritta Bebe, solo perché c'è il mio nome sopra».
Cosa vuoi fare da grande?
«Magari mi aprirò un negozio di vestiti per bambini! No, mi piacerebbe diventare Presidente del Comitato Paralimpico e poi quello del Coni».
Impegnativo.
«Devo ancora studiare, devo ancora laurearmi, fare il master, devo ancora fare lo stage, devo ancora fare un sacco di cose. Però lo scopo è arrivare là».
Il tuo coraggio, la tua storia e il tuo talento ti hanno fatto vivere molte emozioni. Penso ai red carpet, al fatto che nel mondo sei conosciuta come il simbolo di chi abbatte le barriere. C'è molta attenzione su di te. Esiste il rovescio della medaglia di questa "sovraesposizione" per una ragazza di 25 anni?
«Beh, diciamo che non esiste più la privacy. Tutta quella parte della semplicità di andare a un concerto, stare sul parterre, di dire esco la sera e non puoi perché ci sono i paparazzi. Ti perdi la bellezza di stare in mezzo alla gente in qualche modo. Purtroppo tante persone non si rendono conto. È bello sentire il calore delle persone, è bello sentire quella parte là, ci mancherebbe altro. È bello vedere che ti fanno complimenti, domande, che sono orgogliosi di essere rappresentati da quel tipo di persona. Però dall'altro lato…le persone toccano, non capiscono mentre hai il boccone in bocca, non capiscono mentre sei con qualcuno. Non capiscono che magari se ti stai facendo la serata con i tuoi amici, vuoi semplicemente farti una serata con i tuoi amici, perché per i tuoi amici non sei quella cosa lì ma sei semplicemente Bebe. Quindi diciamo che la privacy inizia a mancare».
E questo pesa un po'?
«Un po'».
È stato più difficile raccontare quello che ti è successo o accettarlo?
«Tante cose non le racconti neanche. Non hai neanche il coraggio di raccontarle. Quando ti rendi conto che è necessario raccontarle per aiutare qualcuno, alla fine lo fai. Forse è stato più difficile raccontarlo. Perché le cose accadono e non puoi fare nulla, se non riuscire a sopravvivere in quella situazione là e darti da fare per uscirne nel miglior modo. Dipende dall'argomento chiaramente».
Se dovessi individuare il momento più importante della tua carriera, quello per cui dici "ne è valsa la pena", quale sarebbe?
«Tanti e per cose completamente diverse. A livello sportivo penso sia stato Tokyo. Forse perché l'ho sofferto tanto prima, perché mi son resa conto di quanto ne sia valsa la pena. Era valsa la pena soffrirci tanto per ottenere quella cosa là. A livello sociale, sembrerà una cosa stupida, ma con l'associazione (art4sport,ndr) un sacco di anni fa, ci siamo buttati in piscina alla fine di un evento. A uno di questi ragazzi si era gonfiata la gamba perché era spugna, non poteva andare in acqua. Il momento in cui ho visto lui guardare noi che avevamo la nostra semplicità nello staccarci la gamba e buttarci in acqua, o uscire e shakerarla per togliere l'acqua da dentro e lui invece si è reso conto che stava cercando di camminare, facendo vedere che la gamba fosse normale ma che chiaramente la gamba non c'era più. Ha preso la spugna della gamba l'ha buttata via e da quel momento in poi, addirittura, faceva il risvoltino ai pantaloni. Aveva accettato la protesi e aveva capito che fosse per lui una cosa figa e non una cosa da nascondere, è stato bello. Allora capisci che quel lavoro lì devi farlo ancora di più».
Dopo due anni di stop dovuto all'emergenza Covid, tornate a riunirvi con WEmbrace Games a giugno. È incentrato sull'inclusione e dopo la pandemia è un discorso molto complicato.
«Assolutamente. Il nome dell'evento è WEmbrace quindi proprio il contrario di quello che andrebbe fatto. Un abbraccio di gruppo. Ed è volere in qualche modo riabbracciare tutto quanto, perché intendiamo sia l'inclusione a livello di disabilità e tutto quanto, ma anche a livello di green, a livello sociale, a livello gender. Lo scopo è abbracciare tutte cose completamente diverse per fare squadra. Sono tipo i vecchi "Giochi Senza Frontiere", tipo "Takeshi's Castle" per spiegarlo ai più giovani. La figata sarà quella di avere tante squadre, mix di persone diverse, con disabilità diverse. Tutte capitanate da personaggi famosi dello sport e dello spettacolo. Quest'anno il tema è la musica. Lo scopo è mettere tutti davanti a delle barriere, per vedere come reagiscono nell'affrontare queste barriere. Son giochi "non atletici", mettiamola così. Le barriere esistono, esisteranno sempre, anche con un sacco di agevolazioni. Che siano architettoniche, mentali, tutti le avremo in qualche modo. Dire eliminiamole completamente è quasi impossibile, il nostro è un volerle affrontare insieme. Se fai squadra puoi abbattere ogni tipo di barriera».