Auguri, Alì. Icona del ring, alfiere dei diritti civili: il più grande sei ancora tu
“Non devo essere come voi volete che io sia, sono libero di essere chi voglio”. Così parlò Cassius Clay dopo il primo titolo mondiale dei massimi. C'è qui tutta la sua vita, la sua storia, la sua leggenda. C'è il suo modo di combattere, il rope-a-dope che non piaceva ai puristi, l'essere il più grande del mondo, l'amicizia con Malcolm X, la causa della Nation of Islam e il rifiuto della leva per il Vietnam. C'è il suo essere un simbolo di orgoglio nero e rifiuto dell'autorità che pure non si tratteneva dal chiamare Frazier “Zio Tom”, e certo il rivale con cui ha scritto la storia in Zaire e a Manila, con cui è stato re e ha fatto tremare la giungla, non si è mai divertito. C'è un solo aspetto davvero ordinario nella storia del campione che ha cambiato la storia dello sport. Ha combattuto troppo, ha preso troppi pugni e il corpo alla fine l'ha tradito.
Da Cassius Clay a Muhammad Ali
“Ha vissuto tante vite per tante persone” ha detto l'attore e attivista per i diritti civili Dick Gregory. Si è annunciato come il più grande e ha finito per diventarlo, ha dato forma alla sua stessa narrazione e plasmato la storia americana per generazioni. Porta nel sangue l'eredità, almeno genetica, dell'ex segretario di stato Henry clay e di suo cugino Cassius Marcellus Clay, un abolizionista che ereditò 40 schiavi e li liberò tornato dalla guerra con il Messico e fu per un breve periodo emissario di Lincoln in Russia: nella sua tenuta visse il bis-bisnonno del futuro Mohammed Ali, che rinuncerà a quel suo nome da schiavo in nome dell'orgoglio di razza.
Cos'è un nome, si chiedeva il Romeo shakespeariano. Ma è proprio qui, fra lo sfrontato e quasi pagliaccesco Cassius Clay, il problematico Cassius X e il maturo sportivo pensatore Muhammad Ali, che si misura la molteplicità camaleontica di un campione che è insieme clown e portavoce di cause nobili, per cui il pugilato è solo il suo modo per annunciarsi al mondo.
Ingiustizie e riscatto
Cresce in una Louisville che prelude al profondo sud, una città che è due anime come due sono le Americhe nell'era del “separati ma uguali”. Impara a combattere per reagire all'ingiustizia di una bicicletta rubata, per vendicare non solo le botte di un padre artista frustrato e spesso ubriaco (dipinge insegne kitsch ma avrebbe voluto realizzare quadri) che si sfoga con la moglie Odessa. Ha appena un anno più di Emmett Till quando viene sconvolto dalle foto del suo cadavere mutilato e torturato perché, ragazzino di colore, avrebbe cercato di flirtare in un negozio con una commessa bianca.
Combatte in un mondo in cui i pugili neri, dice, sono come schiavi messi su un ring per il divertimento dei bianchi che possono scommettere. Un mondo in cui Joe L.Sullivan, Jim Jeffries e perfino Jack Dempsey si rifiutavano di sfidare avversari neri, in cui a Joe Louis, campione dei massimi nel '36 sul tedesco Max Schmeling (che Hitler avrebbe voluto simbolo del Terzo Reich ma segretamente aveva protetto amici ebrei durante la Notte dei lunghi coltelli), si chiedeva di rispettare una serie di regole per non alienarsi l'America bianca.
Il quinto Beatle
È il campione olimpico che non riesce a farsi servire da mangiare nei ristoranti bianchi, che per protesta getta la medaglia di Roma nell'Ohio, almeno così vuole la sua storia. Per il suo biografo, Hauser, l'avrebbe semplicemente persa: ma perché rovinare una bella storia con la verità? È il quinto Beatle che incontra i Fab Four a pochi mesi dall'assassinio del presidente Kennedy in un'America che sente il vento del cambiamento. Si sta preparando per sfidare Sonny Liston, e un avversario così apparentemente indistruttibile non l'ha mai affrontato. Parla al mondo e a se stesso, “Ercole nelle sue dodici fatiche” come all'epoca lo ritrae un articolo di Time, parla per convincersi di potercela fare e intanto scherza con i quattro che cambiano la storia della musica. “Non siete stupidi come sembrate” dice dopo averli fatti aspettare. “No, ma tu sì” gli risponde John Lennon che smorza con una risata quella che per lui non sembra del tutto una battuta.
"Sono l'America che non volete riconoscere"
Il resto è storia. È storia di un primo titolo urlato al mondo, storia dell'arrivo del più grande di tutti e di una rivincita segnata dal pugno più controverso nella storia dello sport. È storia di un uomo, di un'icona, di una leggenda che dopo quel primo titolo scarta di lato, cambia nome, cambia umore e orizzonti. Proprio a Miami entra nella Nation of Islam, i “Musulmani Neri” guidati da Eliah Muhammad che insegna ai seguaci come i bianchi siano diavoli geneticamente creati in laboratorio. Ma il colore, dirà Ali dopo aver lasciato il gruppo e abbracciato l'islamismo tradizionale, “non fa di un uomo un diavolo. È il cuore, la testa, l'anima che conta. Quel che c'è fuori è solo decorazione”. Il mondo, diceva il suo preparatore Brown, “è una maglietta nera con qualche bottone bianco”. E in quella stagione, ha riconosciuto Ali, la Nation of Islam ha dato ai neri d'America un messaggio di riscatto in un'epoca di persecuzione.
È in quel momento che Ali fa di se stesso una piattaforma. “Io sono l'America” ha detto, “sono la parte che non riconoscerete. Ma abituatevi a me. Sono nero, fiducioso, presuntuoso. Abituatevi: è il mio nome, non il vostro; la mia religione, non la vostra; i miei obiettivi, solo i miei”. E a lui nessuno ha mai gridato negro. Non è mai stato bravo a scuola, si è diplomato come 376mo su 391 nel suo anno, non ha mai letto un libro e i suoi discorsi li ripeteva fino a impararli a memoria. Recitava fuori dal ring e recitava i combattimenti sul ring, come diceva qualche osservatore troppo critico del suo stile non ortodosso di quel suo danzare come una farfalla prima di pungere come un'ape. Eppure, dopo la rinuncia al titolo mondiale e di fatto a oltre tre anni di attività nel pieno della sua maturità fisica, diventa l'icona larger than life. Diventa il simbolo di una lotta più grande, di obiettivi che non sono più solo i suoi. Diventa l'unico pugile chiamato a rispondere di religione, di guerra e di pace, di marijuana e matrimoni interraziali, come fosse un senatore.
I duelli epici con Foreman e Frazier
“Amava essere adorato dalle folle” spiegava la sua ultima moglie. “Anche se questo l'ha reso vulnerabile in modi che non poteva controllare, non ha mai perso la sua innocenza infantile, la sua natura solare, positiva. Voleva divertire la gente, voleva renderla felice”. E pazienza se questo vuol dire partecipare all'incontro più duro di sempre, contro Joe Frazier. C'erano tutti a guardarlo l'8 marzo 1971 al Madison Square Garden. C'erano Coretta Scott King, la figlia del reverendo Martin Luther, Bill Cosby, Diana Ross e Sidney Poitier. C'era Norman Mailer che prendeva appunti per un libro e Frank Sinatra fotografo d'eccezione per Life. Vincerà Frazier ai punti, Ali si riscatterà nel 1974. Si arriva così al capolavoro di Don King, al 1° ottobre 1975, al Thrilla in Manilla, manifesto secondo per efficacia solo al Rumble in the Jungle (l'incontro fra Ali e Foreman a Kinshasa col pubblico che vuole il sangue al suono di “Ali bomaye”).
Si comincia alle 10.45 del mattino ora locale nell’Araheta Coliseum di Quezon City, sobborgo della capitale delle Filippine, per garantire la prima serata in America. Dopo 14 round, Frazier ha l’occhio sinistro chiuso e la bocca massacrata. Eddie Futch fa defluire il sangue dalla sua faccia poi getta la spugna. "Siediti ragazzo, è finita. Nessuno si dimenticherà di quello che hai fatto oggi". In quello stesso momento, il manager Angelo Dundee ha convinto Ali a portarsi a centro ring con la forza della disperazione. "Quando Angelo mi disse di alzarmi perché Frazier stava per lasciare non sapevo se ce l’avrei fatta — racconterà — Ero sull’orlo del collasso”. Sviene a centro ring, ma fa in tempo a vedere l'avversario che si arrende. E’ la cosa più vicina alla morte che abbia mai vissuto" dirà. Eppure combatterà fino al 1981, fino all'ultima sconfitta, la quinta in 61 incontri, contro l'oscuro Trevor Berbick alle Bahamas.
Arcobaleno e tempesta
Campione amato e odiato, ha unito il mondo nella pietà che non cede al rancore, nel vederlo stanco e tremante per il Parkinson accendere il braciere olimpico di Atlanta. È rimasto, per dirla con Hauser, “un guerriero, il simbolo della lotta contro un sistema sociale ingiusto”. Per questo, ha scritto un altro suo biografo, Dave Kindred, “abbiamo perdonato a Muhammad Ali i suoi eccessi. Abbiamo visto in lui il bambino che è in noi. E se è folle, crudele, arrogante, innamorato della propria immagine fino all'oltraggio, lo perdoniamo. Non possiamo condannarlo, come non possiamo condannare un arcobaleno perché sparisce nell'oscurità. Gli arcobaleni nascono dalle tempeste e in Muhammad Ali c'erano entrambi”.