Aldo Montano a Fanpage.it: “Portabandiera a Tokyo? Mi piacerebbe, ma devo meritarlo”
"Ho vissuto vivendo gran parte della mia vita all’ombra di un grande genitore e di un grande nonno e solo la vittoria di Atene mi fatto affermare e liberare da quel peso". Aldo Montano viene da una famiglia di schermidori e prima della medaglia d'oro individuale ai Giochi olimpici di Atene 2004 ha subito molto questo fardello. La carriera, poi, gli ha dato tante soddisfazioni. Ora vuole regalarsi nuove emozioni nell'ultima Olimpiade della sua carriera, quella di Tokyo del 2021. Lo schermidore livornese, che appartiene al Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre della Polizia penitenziaria, pensa ai Giochi Olimpici rinviati al prossimo anno. A Fanpage.it Montano si è soffermato sulla sua carriera, sulle vittorie e sulle cadute; ha parlato del rapporto della scherma con la sua famiglia e di cosa vorrebbe fare dopo le Olimpiadi del 2021.
Come ha preso Aldo Montano il rinvio dei Giochi Olimpici del 2020?
"Era l’unica decisione possibile in questo periodo qui. Vedendo il bicchiere mezzo pieno meglio posticipate che annullate, dall’altra parte bisogna ancora vedere. Ci sarà un punto interrogativo fino gennaio-febbraio 2021 quando si riunirà di nuovo il CIO e e il comitato organizzatore di Tokyo per decidere se sarà possibile fare la manifestazione a luglio 2021 oppure no. Io l’ho presa bene perché era la cosa giusta per la sanità mondiale, ma allo stesso tempo male perché per un atleta di 43 anni qualcosa cambia. Quando hai 25/26 anni cambia poco, tra 42/43 è un’infinità di tempo: devi ritrovare le motivazioni perché stai a fine carriera e lavori in un certo modo anche a livello mentale. Dover riprogrammare tante cose, anche se il tempo scorrerà velocemente, ha un impatto su tutto".
Si era parlato di lei come portabandiera a Tokyo, potrebbe essere una motivazione che la spinge a resistere fino alla prossima estate?
"Nessuno mi ha chiesto niente, io ne so quanto voi, e non ho nessuna certezza. La decisione del portabandiera sarebbe stata a ridosso dell’evento, con squadre definite e atleti alla mano. Mi ha fatto piacere essere un possibile candidato, un po’ per me e un po’ per la tradizione familiare che ci portiamo dietro alle Olimpiadi da mio nonno passando per mio padre fino ad oggi: sono quasi cento anni di storia italiana olimpica. Uno sprone per resistere? No, perché l’Italia è una squadra forte e me lo devo meritare quel posto. La mia speranza è quella di riprendere perché ad oggi è tutto molto vago: bisogna navigare a vista ed è difficile fare progetti futuri a parte quello che c’è davanti al proprio naso".
La sua è una famiglia di grandi schermitori: chi ha influito di più nel suo percorso?
“Sicuramente nonno Aldo, che oltre ad essere schermisticamente più vicino a me mi ha aiutato anche attraverso il rapporto nonno-nipote. Lui e mio padre mi raccontavano spesso che si rincorrevano lungo via Roma, la via principale di Livorno, perché papà non aveva voglia di allenarsi. Mio padre è stato uno che non avendo molto amato lo sport è stato molto forte, però nel momento giusto (33 anni, ndr) ha smesso: lui c’ha messo tutto il cuore ma si è tirato via facilmente. Ha spinto me a fare altro, a non inseguire il sogno olimpico perché sapeva quanto era stato difficile per lui da piccolo e ha cercato di non farmela pesare. Io ho scelto grazie a mio nonno e alla sua passione. Lui mi ha raccontato questo sport nei particolari, mi ha parlato delle olimpiadi del 1936 e del 1948 e mi ha fatto innamorare più lui che non mio padre della scherma".
Che emozioni ha provato a vincere la medaglia d’oro come suo nonno e suo padre?
"Da ragazzino io avevo l’etichetta del ‘nipote di' o ‘figlio di', vivendo gran parte della mia vita all’ombra di un grande genitore e di un grande nonno, ma nonostante ero bravino da piccolo a farmi affermare è stato il giorno ad Atene nel 2004. Il salto nella squadra azzurro, certo, ma un conto è essere parte di una squadra e un altro è vincere. Ero già andato a medaglia nel Mondiale l’anno prima ma ancora la vittoria attesa non era arrivata. È stato bello perché è arrivata nella gara più importante ed è stata come la chiusura di un cerchio, oltre ad avermi fatto togliere di dosso un grande peso che mi portavo addosso negli anni precedenti. Io quella medaglia la volevo perché era il mio sogno e ci avevo investito tutta la mia vita ma non si sa mai dove può portare la carriera di uno sportivo. Mi sono fatto trovare pronto nel momento giusto e con un pizzico di fortuna ho vinto davanti alle persone a me più care perché ad Atene c’era la mia famiglia e i miei amici. Condividere un’emozione così forte con chi vuoi bene vuol dire molto".
Che importanza hanno avuto nella sua formazione, in ordine di importanza, Mario Curletto, Viktor Sidjak, Christian Bauer e Giovanni Sirovich?
“Loro sono il filo conduttore della mia carriera. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa a livello schermistico come impostazione al lavoro, visto che appartengono a scuole diverse. Mario è stato un maestro che è anche un po’ zio, che ti aiuta a crescere e ti forma anche caratterialmente. Il nostro rapporto non era da allenatore-atleta ma il maestro di scherma da club con il ragazzo che si sta formando: è stato fondamentale per le basi, senza le quali non si può fare il passo avanti. Poi ci fu il cambio di maestro e arrivò Sidjak, che era stato acerrimo nemico di mio padre sulla pedana per tanti anni: lui è stato molto severo ma aveva la parte tenera e questo suo modo di fare mi ha fatto crescere molto. Dopo arrivò questo francese (Bauer) che aveva fatto grandi cose in Francia e noi eravamo in un periodo ballerino: lui ha dato un’impostazione, una programmazione forte che ha cambiato il nostro modo di fare e tutt’ora ci portiamo dietro questo idea di tattica e di tecnica. Con Giovanni (Sirovich) abbiamo costruito un rapporto umano, visto che ora sono un atleta che deve stare attento agli infortuni e capire il momento in cui c’è da fare o c’è da spingere un po’ di più: lui mi ha aiutato molto. Insieme abbiamo vinto tante belle cose come il Mondiale del 2011 e mi ha riportato alla ribalta“.
Se dovesse scegliere tre momenti della sua carriera a cui è più legato, quali sarebbero?
“Gran parte di quello che sono riuscito a fare meglio è stato grazie agli infortuni. La grande vittoria è scontata, avrei potuto anche ritirarmi dopo Atene, invece credo che gli infortuni mi hanno fatto scattare la molla per arrivare fino a 43 anni. Cadere, franare rovinosamente per poi rimettermi in discussione e ripartire, sono stati dei momenti positivi. Nel 2010 un Mondiale disastroso a Parigi: in un mattino di novembre entro in pedana alla 8.30 e alle 8.35 ero già fuori, da favorito. Da quel momento è iniziato un percorso che mi ha portato a vincere i Mondiali dopo un anno. Nel 2007 altro ricordo: nel 2006 avevo subito un brutto infortunio (strappo al bicipite femorale e al nervo sciatico) che avrebbe fatto smettere chiunque ma ho messo tutto quello che avevo fatto e che era successo in un cassetto e sono ripartito: fu una delle mie stagioni più belle: non finì con un oro perché persi contro un guru della scherma come Pozdnjakov ma per me ha un grande valore. Poi le vittorie alle Olimpiadi sicuramente”.
Come si sta allenando Aldo Montano in questo periodo e che lavoro sta facendo su se stesso a livello mentale dopo il rinvio delle Olimpiadi?
“In questo periodo sto facendo esattamente quello che fanno i colleghi degli altri sport: si cerca di far qualcosa per tenersi in forma. Il più grosso allenamento che sto facendo in questo periodo è quello con mio figlia, che mi tiene impegnato tutto il giorno“.
Quali sono i progetti per il futuro di Aldo Montano?
“In cantiere ne ho tanti ma bisogna vedere dopo l’attività sportiva cosa succede. A me piacerebbe contribuire all’evoluzione della scherma e dello sport italiano, visto che di esperienza ne ho. Mi sto già impegnando nella FIE come presidente della commissione atleti e a livello internazionale stiamo portando avanti tanti progetti. Semmai dovessi essere utile anche nel mondo sportivo italiano ma al momento non c’è nulla. Mi auguro che il mio futuro possa essere nell’ambito sportivo: non so se nella parte magistrale dell’insegnamento o altro, forse maestro è un po’ tardi perché si formano a 27/30 anni però mai dire mai. Non è detto che grandi atleti sono buoni maestri e viceversa, quindi vediamo cosa succede. Spero di contribuire anche nel mio gruppo della Polizia Penitenziaria, dove metterò a disposizione il mio know-how per le generazioni che verranno. So solo che metterò lo stesso entusiasmo, lo stesso impegno, la stessa voglia e la stessa grinta che ho messo nella mia vita sportiva perché sono cose che mi hanno fatto fare bene a livello sportivo e mi auguro che possa accadere lo stesso a livello lavorativo”.