Calvarese: “Un arbitro non può avere una vita come gli altri. Minacce fisiche anche ad alti livelli”

Le parole dell'arbitro Marco Guida hanno fatto discutere: la questione del vincolo territoriale (di recente s'è manifestata per il milanese Sozza, che ha diretto Milan-Napoli) e la possibile designazione per una partita del Napoli sono argomenti che diventano inconciliabili se commisurati alla passione viscerale con la quale viene vissuto il calcio in un determinato contesto ambientale. Sia lui sia Fabio Maresca (citato dallo stesso Guida) sono di origini partenopee, a scopo precauzionale preferiscono evitare di fischiare nelle partite del Napoli per le presunte pressioni, i possibili condizionamenti, qualsiasi forma d'interferenza con la vita pubblica e privata che si manifesterebbe a corredo delle loro interpretazioni in partita. Se il designatore, Rocchi, chiama sono pronti a rispondere "presente" ma c'è qualcosa che non li lascia tranquilli: ovvero, la reazione che potrebbero avere le persone rispetto alle decisioni prese in partita. "Il calcio viene vissuto in maniera diversa da altre città come Milano – è la motivazione addotta da Guida -. La mattina devo andare a prendere i miei figli e voglio stare tranquillo".
Sull'argomento è intervenuto con l'intervista a Fanpage.it l'ex arbitro di Serie A Gianpaolo Calvarese, che oggi mette a servizio la sua esperienza in tv (in occasione della Var Room su Prime Video per la Champions League) e attraverso le spiegazioni che condivide sui social e attraverso il suo sito ufficiale Calvar.it.
Gianpaolo Calvarese, hanno fatto rumore le dichiarazioni di Guida sulla scelta di non arbitrare mai il Napoli. Ci spieghi tecnicamente come funziona questo processo?
È molto semplice: tra i diversi documenti che gli arbitri a inizio stagione devono compilare nell'ambito delle procedure burocratiche, c'è proprio un "foglio notizie" dove eventualmente si indica una preclusione relativa alle squadre che non si vogliono arbitrare. Le motivazioni possono essere varie: territoriali, ma anche lavorative per esempio.

Perché si è deciso di abolire il celebre vincolo di territorialità per gli arbitri?
Credo che faccia parte di un percorso culturale, che il nostro Paese deve vivere a livello sportivo. La decisione mi trova assolutamente d'accordo e spero che sia il viatico giusto. Attenzione però perché spesso si aggiunge anche una motivazione legata alla necessità: abbiamo tanti arbitri internazionali, la maggioranza, che vengono dalle grandi città. Mi vengono in mente i romani (Mariani, Marchetti, Doveri), i campani (Guida e Maresca) e i lombardi (Sozza, Colombo). Solo abolendo il vincolo si potevano garantire grandi arbitri per i big match.
Ci sono altri arbitri che hanno espresso questo tipo di indicazione, ma in altre città?
Questo non posso saperlo, ma basta ragionare empiricamente: Pairetto non ha mai diretto Torino e Juventus, Mariani non ha mai arbitrato Roma e Lazio.
Il fatto che un arbitro possa sentirsi “legato” ad un territorio, non rischia di creare indirettamente un condizionamento quando va ad arbitrare altre squadre o rivali dirette?
Lo escludo categoricamente: se un arbitro arriva ad alto livello è per merito di una gavetta di 10-15 anni da professionisti. Gli arbitri tifano innanzitutto per se stessi: l'obiettivo primario è fare bene e sbagliare il meno possibile.

C’è un tema di pressioni che va oltre la questione territoriale? Un arbitro non rischia di avere ripercussioni al di là della zona in cui vive?
Assolutamente sì, ovviamente un arbitro vive pressioni non solo mediatiche ma anche fisiche; è accaduto che arbitri anche di alto livello abbiano ricevuto minacce personali. Ma la vera piaga riguarda le categorie inferiori.
È la prima volta che un arbitro parla della necessità di vivere con serenità, a fronte di quello che avviene nel calcio. Ci sono molte pressioni o intromissioni nella vita quotidiana fuori dal campo?
Gli arbitri ormai per fortuna (o purtroppo, dipende dai punti di vista) sono diventati dei personaggi pubblici, con una forte visibilità. Come ogni personaggio in vista, subiscono anche delle intromissioni nella loro vita quotidiana. Sono situazioni da gestire con intelligenza, l'importante è che non si superi mai il limite.
Ti è mai capitato di avere problemi nella vita di tutti i giorni per una decisione presa sul campo?
Purtroppo è capitato a tutti ed è capitato anche a me, soprattutto dopo partite con elevato interesse mediatico. Continua a capitare: per strada, sul treno, negli aeroporti, sul taxi. Questo a mio avviso perché spesso c'è una forte carenza di cultura sportiva.

Com’è la vita di un arbitro lontano dalle partite?
La parola esatta è "morigerata". Non solo dal punto di vista dell'attenzione fisica, perché non dobbiamo scordarci che un arbitro arriva in Serie A intorno ai 30 anni e può finire la sua carriera a 45/50, quindi molto più tardi rispetto ai calciatori. Dopo una certa soglia anagrafica bisogna essere delle macchine perfette sotto tutti gli aspetti. E poi dobbiamo essere dei giudici, e un giudice non può avere una vita come quella di tutti gli altri.
Questa forma di tutela a disposizione di arbitri di livello internazionale fa capire quanto sia complessa la situazione di chi invece arbitra nelle categorie inferiori. Oggi quanto è pericoloso essere arbitro?
Il pericolo esiste, soprattutto nei campi di periferia. Questo è anche uno dei motivi della crisi: i ragazzi non vogliono arbitrare anche per paura. Per fortuna si stanno inasprendo considerevolmente le pene: fino a poco tempo fa lo stadio, il campo erano zone franche, per fortuna quella stagione è passata.