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Opinioni

“Vivere non è un gioco da ragazzi” è una pubblicità progresso anti-droga di sei ore

Trattare il tema del rapporto tra giovani e sostanze stupefacenti non è così semplice. La serie Vivere non è un gioco da ragazzi di Rai 1 ci ha provato, cadendo però troppo spesso in paternalismi e retorica un tanto al chilo. Nonostante una recitazione alle volte apprezzabile, è difficile empatizzare con le storie dei protagonisti, troppo spesso sacrificate all’altare della pubblicità progresso.
A cura di Grazia Sambruna
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Francamente il titolo non ispirava alla visione. Vivere non è un gioco da ragazzi, la serie che si concluderà lunedì 29 maggio su Rai 1, potrebbe aver pagato un minimo di scotto onomastico. I più caustici, di sicuro, avranno pensato a un progetto à-la Boris. In realtà, non tutto il minutaggio è disprezzabile. Per quanto la storia, forse, si sarebbe adattata meglio a un film o, al massimo, a una miniserie, in tv si è visto di gran peggio. Il tema trattato è ostico: difficile, infatti, parlare del rapporto tra giovani e sostanze stupefacenti senza “puzzare di vecchio”. Vivere è un gioco da ragazzi correva quindi il rischio di risultare un lunghissimo spot anti-droga di sei ore. Vediamo se e come sia riuscita a evitarlo.

I protagonisti sono un gruppo di liceali bolognesi piuttosto bellocci. Frequentano tutti il Liceo Classico Carducci e hanno 18 anni. Una brutta sera, uno di loro, Mirco, muore per una pasticca (la "pasta" finita in tendenza su Twitter un secondo dopo) tagliata male e Lele (Riccardo De Rinaldis Santorelli), suo amico, vive nel terrore di essere responsabile del decesso. E, quindi, di finire al gabbio per anni. Da qui prende le mosse la trama della serie che andrà ad analizzare piuttosto approfonditamente anche personalità e grattacapi dei genitori di ciascuno dei giovani finiti in mezzo a questa storia più grande di loro. Tra gli adulti, spiccano Stefano Fresi e il suo perfetto accento emiliano nel ruolo del padre di Lele e Claudio Bisio, l’agente anti-droga Saguatti che è allo stesso tempo poliziotto buono e “cattivo”. Una sorta di Commissario Montalbano del Centro Italia, già visto ma funzionale.

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Perché Mirco non ha mai sentito parlare di MDMA al tg?”, chiede un arrabbiatissimo Lele, in piena elaborazione di lutto e senso di colpa, interrompendo una lezione. Non è una domanda stupida, questa. Fino a pochi anni fa, non c’era contenitore daily pomeridiano, almeno, che non desse spazio a ragazzi sopravvissuti al coma o su di lì per aver ingerito una pasticca in discoteca. Oppure ai parenti di qualche giovane che, per lo stesso motivo, non era più tra noi. Oggi se ne parla molto meno. O, in ogni caso, alcune sostanze, pur sempre illegali, pare siano state in un certo senso “normalizzate”: fioccano pagine Instagram su come farne uso “nel modo corretto” e anche nelle serie tv scorrono fiumi di polverine a scopi ricreativi per serate frizzanti. Lo stesso si dica per antidepressivi e psicofarmaci. L’idea che un diciottenne possa pensare, oggi come oggi, che ci sia poca o nulla differenza tra uno shottino di rhum e pera e una pasticca non è poi così peregrina. Eppure, la gente muore ancora per questo motivo. O “ci rimane”. Solo, la notizia ha forse smesso di essere trend.

Vivere non è un gioco da ragazzi parte proprio da questa leggerezza di fondo: i protagonisti non hanno poi grossissimi problemi personali. Tutti, tranne “il secchione”, buttano giù paste ma solo la sera del sesto giorno della settimana, in discoteca. Non sono dei tossici all’ultimo stadio, vogliono solo godersi una nottata senza pensieri. La serie è a fuoco, quindi, in partenza, nel fotografare quanto poco ci voglia per fare una stupidaggine che potrebbe costare molto caro. Nel corso delle sei puntate, appesantisce però il carico andando a cercare le origini del “male” magari nel fatto che uno dei ragazzi abbia visto i genitori divorziare, quell’altro non riesca ad avere il successo sperato con le coetanee e via così in un insieme di giustificazioni che sanno di retorica piuttosto stantia.

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Una serie Raiplay che però è scritta più per i genitori che per i loro figli. E il livello di apprensione che potrà aver causato sarebbe forse quantificabile usando la scala Mercalli come unità di misura. La serie va a concentrarsi, spesso in modo pedante, sull’importanza della verità in ogni rapporto. Ciò vale per i liceali, come per gli adulti. E funziona nei momenti in cui mostra, molto lucidamente, come situazioni pericolosamente stupefacenti potrebbero capitare a chiunque, senza che per questo gli si possa dare il patentino di pessima persona. La banalità, anzi, in qualche modo l’innocenza del male arriva improvvisa e poi si deve capire, meglio se insieme, come affrontarla. Morale a parte, pregio della serie è sicuramente quello di non fare terrorismo psicologico sulle droghe, ma, allo stesso tempo di non normalizzarle. Peccato solo che il messaggio, per via del formato XXL, degli sviluppi alla moviola della trama e di alcuni predicozzi di troppo, difficilmente arriverà a un destinatario sotto i 40-50 anni d’età.

In buona sostanza una pubblicità progresso di sei ore, per quanto alle volte ben recitata, Vivere non è un gioco da ragazzi ha buone intenzioni, ma non centra tutti gli obiettivi che, in partenza, si pone. Risulta difficile appassionarsi alle storyline dei ragazzi, Lele compreso, perché sono sempre uguali, reiterate e i radi colpi di scena risultano puntualmente telefonati da almeno due puntate prima. La serie mostra forse quello che i genitori vorrebbero vedere: figli bravi a scuola che fanno uno sbaglio, circa il primo della loro vita, risolvibile con qualche spauracchio e dialoghi incentrati su “Come diceva nonno”. Tutto molto rassicurante, seppur poco realistico. Nonostante qualche guizzo, Vivere non è un gioco da ragazzi resta la classica serie Rai della buonanotte. Dopotutto, è quello che l'affezionato target di telespettatori desidera. Oppure no?

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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