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The Bear 3 è l’emblema della staticità, ma è proprio questo che la rende perfetta

La terza stagione dell’acclamatissima serie americana sembra aver deluso le aspettative, colpevole di non sviluppare snodi narrativi e rimanere, sostanzialmente, lì dove si era chiusa la seconda. Non è così: la terza stagione di The Bear mette in luce le persone.
A cura di Ilaria Costabile
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Da metà agosto su Disney + è disponibile la terza stagione di The Bear, la serie con Jeremy Allen White e Ayo Debiri, che ha fatto incetta di premi lo scorso anno, ricoperta dei commenti più entusiastici fin dal suo debutto in piattaforma nel 2022. Il terzo capitolo era attesissimo, soprattutto oltreoceano dove, però, non ha ricevuto la pioggia di elogi che ci si sarebbe aspettati. Cosa non avrebbe funzionato? Cosa ci sarebbe di storto, poco chiaro, poco entusiasmante? La risposta, quella più sincera possibile è: nulla, la terza stagione di The Bear è perfetta com’è.

È giusta, sì, nei tempi, nei dialoghi, nelle inquadrature, nella trama, nella sceneggiatura, nell’emotività. I critici americani aspettavano un exploit deflagrante, un colpo di scena capace di sovvertire i piani, di portare scompiglio, aumentare l’entropia di un sistema già pericolosamente vicino all’esplosione e invece la terza stagione di The Bear è l’emblema della staticità, in cui tutto sembra non cambiare, ma in realtà il cambiamento serpeggia negli anfratti di un’apparente immobilità.

Carmy c’è, ma è come se fosse sullo sfondo. Poche battute, molti silenzi, forse troppi pensieri, rimpianti, paure, ossessioni che rimbombano nella testa dello chef, senza trovare via d’uscita, se non quella tossica ed estenuante del non fermarsi mai, del non mettere un punto. Il suo ruminare gomme per smettere di fumare, si associa perfettamente al macinare false convinzioni su se stesso, sulla sua vita, la sua personalità, mettendo costantemente in discussione la sua bravura e anche la sua capacità di essere una persona che vale, meritevole di ricevere amore, quell’amore che lui stesso ha scacciato come fosse il più terribile dei demoni.

La terza stagione di The Bear mette in luce le persone, i personaggi, quello che hanno dentro e lo fa in maniera meno caotica delle precedenti, lo fa senza urla e strepiti, con uno sguardo laterale, con dialoghi più distesi, meno concitati, ma non per questo meno intensi. La sensazione che si ha nel guardarla, dopo aver visto le precedenti, assomiglia a quella sorta di stordimento che si prova quando si è reduci da uno scossone, ancora intontiti per lo scuotimento, ma abbastanza lucidi da capire cosa ci sta accadendo attorno.

Possono l’ambizione, il desiderio di rivalsa, ma anche di tutela, la perfezione, azzerare il necessario e umano bisogno di condivisione, di incontro con l’altro, anche quando l’altro mette a nudo le nostre più insondabili fragilità? Forse no. Nell’episodio dedicato a Sugar, che dopo un’infinita gravidanza è finalmente sul punto di partorire, si assiste all’incontro ravvicinato tra lei e sua madre Donna, una sempre incredibile Jamie Lee Curtis, in cui tra l’agitazione del parto, il fastidio per i dolori che si fanno sempre più intensi, emergono anche quei non detti che, con il tempo, sono diventati macigni. “Non ti ho detto della bambina, perché non volevo tutte le emozioni che ti porti dietro” dice Nathalie alla madre che, con lo sguardo lucido di chi è sul punto di crollare, le dice: “Sto cercando di tenerle a bada”. Uno scambio che condensa i dieci episodi della stagione. Le emozioni sono impegnative, ce lo insegna Carmy che deve fare i conti con i suoi irrisolti, ce lo dice Sydney che sente di volere di più, ma per gratitudine o per paura, non compie quel passo che la porterebbe altrove; ce lo racconta Richie, uno dei personaggi più riusciti dell’intera serie che, finalmente, ha trovato il suo centro e ha abbandonato la rabbia, lasciando spazio alla comprensione, all’accettazione. Ce lo dicono le lacrime di Nathalie che nel dolore riconosce sua madre, ce lo spiegano Marcus e Tina, che nonostante tutto, nonostante la perdita, sono riusciti ad andare avanti.

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La chiosa della serie, poi, è l’immagine chiara e cristallina di quello che accade quando non ci si ascolta abbastanza. Una impeccabile Olivia Colman, guardando Berzatto, gli dice di aver raggiunto il punto massimo della sua aspirazione, ma quello che le è sempre mancato, nonostante le soddisfazioni conquista, è vivere, sentire, senza anestesie date dal lavoro e dall’ossessione della perfezione.

È forse questo particolare che non è piaciuto agli americani, l’idea di non dover essere invincibili, senza accorgersi che ad oggi è proprio la nostra fallibilità a renderci credibili. Ma soprattutto umani.

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Nata nel 1992, giornalista dal 2016. Ho sempre scritto di cultura e spettacolo spaziando dal teatro al cinema, alla televisione. Lavoro nell’area Spettacolo di Fanpage.it dal 2019.
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