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Supervissuto, Vasco Rossi è l’impossibile eccezione che fa deflagrare ogni regola

Supervissuto su Netflix è semplicemente Vasco Rossi, il miracolo di una rockstar che non ha mai respirato piano per non far rumore.
A cura di Grazia Sambruna
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Supervissuto è la docu-serie che Netflix dedica a vita e opere di Vasco Rossi, da vivo. Che ne siate o meno fan, la sua storia è il manifesto sregolato e impensabile di un "uomo comune", come si definisce, Uno straordinario uomo comune che è riuscito a fare di se stesso un'opera d'arte rock, partendo da un fegato spappolato e da una Coca Cola per digerire. Tra drammi, contraddizioni, eccessi stupefacenti e canzoni che fanno e faranno per sempre parte del nostro DNA, tutti raccontati in prima persona, impossibile non rimanere ipnotizzati dalla favola del Blasco.

Sono la rivincita dell’uomo comune. La mia è una favola lunga una vita. Ho cominciato a scrivere canzoni a 17 anni, per divertimento: facevano schifo. Se mi avessero detto come sarebbe andata poi, non ci avrei mai creduto”, la accenna così ma è impossibile riassumere l’assoluta parabola di Vasco Rossi. Perché la sua è una storia unica, irripetibile, mai vista né prima né durante né dopo. La docu-serie Netflix Supervissuto ci prova, in cinque puntate da un’ora ciascuna, partendo dall’infanzia del Blasco e attraversando i decenni di cui lui stesso è stato indomabile protagonista, dai Settanta ai giorni nostri. Lo fa con un lucidissimo Vasco che ricorda, spiega, fa l’audio guida di sè, come fosse un’opera d’arte rock fatta di Rewind, di Buoni o Cattivi, degli Sbagli che fai. Supervissuto è un documentario preziosissimo e lo è a prescindere dal fatto che siate o meno fan del rocker di Zocca. Nessun artista può vantare una carriera così lunga e baciata da un successo costante, incontrovertibile. Nessun artista è arrivato a raccontarla per intero con la sua viva voce.

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La storia di Vasco si fonde con la Storia d’Italia e ne emerge il ritratto di un individuo, come di un Paese, pieno di contraddizioni, drammi, successi insperati, quasi casuali, profondi smarrimenti. Li troviamo tutti nel repertorio di Vasco, “con frasi semplici perché devi arrivare anche a chi non ti vuole ascoltare”. Il Blasco non ha mai respirato piano per non far rumore. La sua favola si sarebbe potuta interrompere in qualsiasi momento. Per gli eccessi, per le mode che cambiano, per il carcere, perché nulla è per sempre. Vasco Rossi è nato per sovvertire ogni tipo di pronostico. E, a prescindere dai gusti personali, non si può non tifare per l’eccezione che infrange la regola, che la fa deflagrare.

Una vita spericolata, una vita come la sua. La favola di Vasco inizia a fine anni Settanta e sa di Colpa d’Alfredo, di Noia, di gente che gli sputava per strada perché lo vedeva come un alieno, un tossicodipendente da rimuovere dalla faccia della Terra, quando la “Terra” era comunque Zocca e dintorni. Una volta raggiunta l’attenzione della stampa, non è andata meglio. Perfino la madre si è ritrovata a scrivere una lettera a un giornalista che definiva il rocker un cattivo esempio, pieno di dipendenze e poco altro. Rossi, nella docu-serie, non si nasconde certo dietro un dito: “Le anfetamine mi facevano lavorare in studio più velocemente e a me non interessava vivere a lungo. Io volevo solo portare avanti il mio progetto musicale, la mia storia. Sono stato l’unico a venir denunciato dal suo stesso spacciatore. Quando vennero i carabinieri a casa mia, gli consegnai subito 20-30 grammi di cocaina, le mie scorte. Non hanno creduto che fossero per uso personale. Invece, era così”.

Poi il primo Sanremo con “Vado al Massimo” urlata in faccia ai giornalisti presenti perché non voleva rischiare di diventare come loro in generale e come uno uno di loro in particolare. Presentato dal liturgico Claudio Cecchetto subito dopo la “simpaticissima sigla di Pippo Franco”. Con il riferimento, nei ritornello della canzone, al Messico “perché lì le sostanze costavano meno. O almeno così si diceva a Zocca a quei tempi. Mai capito se fosse vero”. In questi decenni di sesso, droga e roc’n’roll, Vasco viveva le sue giornate 72 ore alla volta: “24 sono troppo poche. Cosa vuol dire che vai a dormire e poi ne inizi un’altra così breve, va a finire che non ti ricordi niente”. E quindi tre giorni di eccessi “senza mai arrivare in ritardo sul palco” e altri tre di ritiro nella sua casa-“eremo”, dove vive tuttora. Si nutriva solo di latte. Mi sembravano tutti matti”, ripete spesso nel documentario, da quelli del Festival alla gente comune, quella al di fuori della combriccola del Blasco. Erano, in effetti, tutti ordinari. Tranne lui.

Nel 1983 incontra Laura Schmidt, la donna della sua vita, “con una minigonna cortissima”. La prima impressione è di profondo, reciproco, fastidio. 34 anni lui e 17 lei, “me ne sono innamorato la prima volta che abbiamo cenato insieme da soli. Finché si è arresa a questo amore”. Da quella cena, torneranno a casa alle tre di notte. Il padre di Laura dirà: “Non lo vedrai mai più”. Stanno ancora insieme. Vasco Rossi nasce e vive per sovvertire, in ogni campo. È impossibile riassumerlo, come è impossibile non rimanerne affascinati.

Le puntate più interessanti sono quelle che raccontano il giovane Vasco, il ragazzo senza regole che si ritrova in mano il primo LP e lo porta al bar di Zocca per farlo vedere agli amici, ai camerieri dicendo, stupefatto: “Qua c’è scritto che sono uno che fa dischi”. Non poteva sapere che ne avrebbe fatti per il resto della vita e che la sua vita sarebbe diventata quella di un Highlander del rock, come, è abitudine pensare, ce ne sono solo negli Stati Uniti. Gioca nello stesso campionato, per resistenza e produttività dei Rolling Stones. Intanto, negli anni, vede tanti amici andarsene e metabolizza il dolore scrivendo canzoni per loro, per farli continuare a esistere per sempre. Come le donne che ha cantato, da Jenny a Silvia, passando per la studentessa di Albachiara, per Sally. “Sono uscito da ogni inferno e da ogni paradiso, dice. Ed è chiaro che nessun ufficio stampa gli ha consigliato questa come qualunque frase “a effetto” che gli esce dalla bocca con nonchalance, col pragmatismo dell’uomo comune. Un comunissimo uomo straordinario che mentre parla di faraonici tour e record mondiali di presenze ai concerti, non si scompone. Tutte le emozioni le mette, chirurgicamente, nelle sue canzoni. Canzoni che sono diventate, diventano e diventeranno inni generazionali, parte del DNA, della memoria collettiva di ognuno di noi.

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È un miracolo che Vasco Rossi ci sia, che abbia avuto e mantenuto successo nel nostro Paese, a tratti bigotto ieri ancor più di oggi. Vedere Supervissuto, fa sembrare ogni artista contemporaneo un parvenue. Una pallida e incerta eco di grandezza vera, quella che, invece, nasce una volta ogni cento anni, se va bene. Vasco non è un rivoluzionario, un guastafeste, uno che vuole andare controcorrente perché “va di moda”. Vasco è stato ed è megafono delle contraddizioni, dei drammi, degli errori con cui ognuno di noi si è ritrovato a fare i conti per esperienza personale o indiretta. Amore compreso. Parla a tutti perché non ha mai rinunciato alla propria voce, anche quando non gli conveniva per niente usarla. Sapere che esiste, che un’alternativa spericolata è sempre possibile spaventa terribilmente e fa sognare, fa sognare in grandissimo allo stesso tempo. In un mondo giusto, sarebbe stato il primo artista su cui girare una docu-serie su vita e opere musicali. Invece, abbiamo avuto, da Prime Video, biopic incensanti su carriere infinitesimali che, a confronto, esistono da un weekend.

La storia di Vasco Rossi è e sarà per sempre una Splendida Giornata. Che nessun altro sarà mai capace di vivere anche se è morto dentro, di condividere alla ricerca di un senso in questo stupido stupido hotel che è l’esistenza tutta. Per poi ritrovarsi come le star a poter dire di essere ancora qua. Eh, già.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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