Stranger Things 4, recensione del finale: se hai chi crede in te, puoi combattere qualunque mostro
XXL. Un finale di stagione di quattro ore suona sulla carta come un sequestro di persona. Di tante persone. Così tante in America la mattina del primo luglio, da mandare Netflix in crash per una mezz’ora: troppi gli abbonati già pronti alla visione alle 9 AM del Vol. 2 di Stranger Things 4, il paio di episodi finali della quarta stagione (che, in totale, ha un minutaggio pari a tredici ore). In Italia, a naso, non sta andando diversamente considerato che i social della bolla di chiunque, sono costellati di utenti che, tastiera tra i denti, si dicono pronti a far “flambè” dell’intero albero genealogico altrui, in caso di spoiler.
Del resto, è da fine maggio che attendono di vedere come questa storia andrà a finire. Ed è un terreno molto scivoloso trovarsi a scriverne all’indomani dall’uscita: il rischio di lasciarsi scappare qualche dettaglio di troppo e doversi dare alla macchia tipo Eddie Munson con mostruose creature umane (nonché del Sottosopra) alle calcagna è altissimo. Ci proveremo comunque. Perché, al termine della visione, c’è una domanda a cui rispondere: Stranger Things 4 merita davvero tutto questo hype?
La prima stagione (2016) fu instant cult. Nelle successive, la magia andò calando. Se non negli ascolti, almeno nella qualità del progetto che, nonostante i rutilanti effetti visivi e gli orrendi mostri proposti, dava spesso l’impressione di girare a vuoto. Spettava alla quarta, dunque, risollevare le sorti dello show. Oppure segnarne la Caporetto definitiva. Ebbene, Stranger Things 4 non soccombe ai pronostici e diventa la punta di diamante dell'intera serie.
Ora ci sarà da capire come costringere i nostri nipoti a pigiar play su tredici ore di show (esisterà ancora il binge-watching, in questo ipotetico futuro?), ma saremo nonni – o zii – molto ostinati nell’impresa. Perché Stranger Things 4 fa l’errore che nessuna serie dovrebbe mai permettersi di compiere: esagerare col numero di ingredienti in pentola rischiando il mappazzone tra coming of age, thriller psicologico, horror, teen-drama, ottusità paesanotta, i russi e la Kamchatka. Eppure, vince. Anche grazie all'ottima soundtrack squisitamente 80's che, dopo Kate Bush, stavolta, a occhio, ricoprirà di dobloni i Metallica.
A livello narrativo, il colpo di genio è stato l’innesto di un vero cattivo: Vecna. Non uno spauracchio qualunque che di quando in quando fa “Buh” al solo scopo di scatenare spaventi pigri. Il villain, oltre ad averci fatto riconciliare con il concetto di plot twist al termine del Vol. 1, ha il potere di mirare alla mente delle proprie vittime, facendo riafforare traumi psicologici di un passato lontano o recente fino a portarle alla morte per auto-implosione. Letteralmente. Vuole aprire portali per scatenare l’apocalisse, ma a prescindere dai grandi sogni di gloria di questo cattivone, il livello psicologico su cui gioca è uno dei principali punti di forza dell’intero show.
È così che Stranger Things 4 diventa il più grande e riuscito adattamento del romanzo che Stephen King non ha mai scritto. Sono stati in moltissimi, nel corso dei decenni, a brutalizzare le sue opere in pellicole e serie tv tra lo sciapo e il confuso. I fratelli Duffer riescono nell'impresa in cui tanti prima di loro avevano fallito. Senza nemmeno volerlo, dichiaratamente, fare.
La serie insegna come anche i mostri più temibili possano essere combattuti. E che possano essere combattuti con la tua canzone preferita, letteralmente a colpi di pizza, di musica metal, suonando il basso come se da questo dipendessero le sorti del mondo intero. Last but not least, si combattono non rimanendo da soli. L’ingenuità dei giovani eroi che trovano soluzioni quasi infantili ma pressoché efficaci al grande Male, regala le scene più belle delle serie. “La vita oggi è molto più complicata di un Lego nel naso”, viene detto. Ed è proprio così: i ragazzi stanno crescendo, ora sono al primo anno di Liceo, ed è già stato mostrato che quello sia il loro vero Sottosopra che, proprio come l'originale sotterraneo a Hawkins, si supera solo potendo contare l'uno sull'altro, "santi maccheroni"!
Questo, in fin dei conti, è uno dei motivi per cui Stranger Things 4 piacerà anche a chi non ama l’horror. Per quanto, di quando in quando, la sceneggiatura, tra dialoghi di coppia e tanti sospiri amorosi, sembri voler virare verso una sorta di Dawson’s Creek coi mostri, il messaggio di fondo non viene imbrattato dal sangue delle vittime né dalla paura di un’apocalisse imminente: se hai qualcuno che crede in te, puoi combattere qualunque mostro. Poi si vince o si perde, ma è insieme che si lotta.
Non è retorica spicciola: nonostante Eleven abbia, seppur a intermittenza, superpoteri che la renderebbero in grado di spostare montagne come hobby ricreativo, poco o nulla riuscirebbe a fare senza il sostegno del suo sgangherato gruppetto di amici, ma soprattutto senza quello di Mike, l’unico a dirle ciò che più conta anche nei momenti neri: “Io credo in te”. Singolarmente, nessuno dei protagonisti avrebbe fatto poi così tanta strada nel Sottosopra come nel “Sopra” e basta. Un clan di sfigati vestiti orrendamente e dalle pettinature criminali contro le forze del Male. Hawkins o no, l’adolescenza è un posto orribile in cui vivere da soli. Come anche le età che la seguiranno. Doveva essere un horror – e lo è -, ma sotto sotto Stranger Things 4, al netto della mirabile regia e degli effetti visivi, vale l'hype che la circonda. Perché essere loser non è mai stato così epico.