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Opinioni

Squid Game 2 sembra il Grande Fratello: poco gioco, molto drama e troppa retorica

Dai debiti di gioco di una madre e suo figlio, alla storia strappalacrime di una donna trans che ha bisogno di soldi per la transizione: Squid Game 2 sembra una lunga puntata del Grande Fratello e, se vi aspettavate i giochi sanguinosi, fareste meglio a fare rewatch della prima stagione. Tutto è messo all’angolo in virtù di un messaggio: la critica alle disuguaglianze sociali e al consumismo, che spinge i partecipanti a scelte estreme e immorali. Peccato che in pochi la attendessero per questo.
A cura di Sara Leombruno
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Che dopo la prima stagione Squid Game potesse non riuscire a replicarsi, lo si poteva immaginare. Ciò che era difficile prevedere, però, è che nella seconda parte si riducesse all'osso proprio ciò che ne aveva decretato il successo: il gioco. Le sfide cruente disputate dentro stanze accoglienti e dai colori pastello – tratto distintivo del k-drama di Hwang Dong-hyuk – lasciano il posto a una trama basata sul racconto dei personaggi e del contesto in cui vengono inseriti. Il focus non è sulla gara, ma su quello che c'è dietro. Chi la organizza e perché lo fa, chi partecipa per guadagnarsi da vivere e chi vuole lasciarla per paura di morire: in sette puntate, i giochi sono solo tre. Se vi aspettavate le stesse battaglie sanguinose della parte 1, fareste meglio a fare rewatch.

Dal rapporto morboso tra una madre e suo figlio, finiti in gara con l'obiettivo di puntare al montepremi per ripagare i loro debiti, alla giovane incinta che, nel gioco, rincontra il padre del bebé che ha in grembo che l’aveva abbandonata, alla storia dell'ex marine lasciato da sua moglie, fino alla donna trans che non ha finito la transizione e ha bisogno di soldi per le operazioni; più che una game-serie, Squid Game 2 sembra una lunga puntata del Grande Fratello.

La tensione, la crudeltà, il sottile equilibrio tra sopravvivenza e morale rendeva ogni prova un pugno nello stomaco. Al contrario, questa stagione sembra voler portare lo spettatore a empatizzare con i partecipanti, più che a giudicarne le scelte, diluendo l’efficacia della narrazione e perdendosi in una serie di cliché. Su tutti, la scena della roulette russa con "Con te partirò" di Bocelli come sottofondo. Gli italiani ringraziano, il resto degli spettatori, forse, un po' meno.

Con Squid Game, Netflix aveva infranto ogni record. A testimoniarlo gli oltre 1,65 miliardi di ore visualizzate nei primi 28 giorni, che l'hanno resa la serie più vista di sempre sulla piattaforma, battendo competitor dal calibro di Bridgerton, Lucifer o La casa de papel. Un fenomeno globale in grado di conquistare milioni di spettatori con una formula semplice ed efficace: il gioco crudele, spietato, che teneva col fiato sospeso fino all'ultimo minuto di ogni puntata. Tutto messo da parte in virtù di un messaggio: un attacco alla disuguaglianza sociale e al consumismo.

I partecipanti al gioco, infatti, provengono da situazioni di precarietà economica e sociale. Hanno debiti insostenibili, sono vittime di un sistema che li ha esclusi e marginalizzati. La serie, dunque, sottolinea come le divergenze economiche possano spingere le persone a scelte estreme, perfino immorali. I ricchi che osservano i giochi e li organizzano, incarnano una classe dominante distaccata, che vede la sofferenza dei poveri come intrattenimento.

Un sottotesto profondo e complesso, che merita un adeguato spazio e tempo di trattazione. Peccato che in pochi attendessero Squid Game per questo.

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Nata e cresciuta a Napoli, amo apprendere storie e raccontarle. A Fanpage.it mi occupo di spettacolo e i talent-show sono il mio impero romano. Forse perché vivo sentendomi anch'io su un perenne palcoscenico, ma la mia giudice più severa sono sempre stata io.
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