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Se vi è piaciuta Russian Doll 1, fatevi un favore: evitate Russian Doll 2

Grande delusione per il secondo capitolo seriale di Russian Doll, su Netflix dal 20 aprile. I viaggi nel tempo non sono mai stati così inutilmente egotici.
A cura di Grazia Sambruna
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Inutilmente complicata, prolissa e in costante equilibrio precario sulla rossa chioma della sciagurata protagonista come una fastidiosa doppia punta dura a morire, Russian Doll 2, su Netflix dal 20 aprile, è una delusione. Le premesse non erano delle più auree: gli otto nuovi episodi arrivano dopo tre anni dal debutto del 2019 e considerato quanto i destini del mondo siano stati letteralmente stravolti in questo lasso di tempo, difficile pensare che fossero in molti ad attendere con bramosia il ritorno della pur brava Natasha Lyonne nei panni della stramba lady di ferro Nadia “die hard” Vulvokov.

A metà strada tra The OA e Dark, Russian Doll 2 cade vittima di un vero e proprio autosabotaggio: nel tentativo di surfare l’onda, fin troppo lunga, dei viaggi nel tempo, mette troppa carne al fuoco finendo per mostrare  allo spossato telespettatore tantissimi universi paralleli su cui regna, sovrano, quello dell’ego. Però qui nessuno è Freud.

Ma andiamo con ordine: avevamo conosciuto Nadia la sera della festa del suo trentaseiesimo compleanno e, di puntata in puntata, era stato anche divertente vederla morire un numero pressoché infinito di volte salvo poi risvegliarsi nello stesso attico di amici hipster pronti a celebrarne il genetliaco come se non fosse successo alcunché. Questo Giorno della Marmotta infinito, il più classico dei loop temporali, era a suo modo gradevole da seguire in Russian Doll 1: cervellotici e spassosi i fallimentari tentativi della protagonista per non soccombere, interessante l’incontro a sorpresa con un altro sciagurato a cui era capitata la stessa sorte, gradevole la bizzarria dell’evento di per sé. Lo spettatore poteva ritenersi soddisfatto, pur senza una vera e propria spiegazione dei perché del fantascientifico inghippo. Ma poco importa: la vera forza della serie era la slapstick dei decessi ripetuti e pirotecnici, con Nadia impegnata a imprecare sempre più forte a ogni risveglio. L’adorabile scorno della protagonista valeva il prezzo del play pigiato. Poi, l’errore.

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L’errore di Natasha Lyonne, interprete principale e showrunner della serie, consiste nell’aver snaturato quella che era una sbarazzina comedy sopra le righe per trasformarla in qualcosa di più, stratificandola di significati che nessuno pretendeva di trovarci dentro. Quattro i piani temporali (e relativi universi paralleli multipli) che lo spettatore, con l’ingenua intenzione di farsi due risate, si trova costretto a esplorare: oltre a quello dei giorni nostri, troviamo il 1944 nel pieno della deportazione nazista degli ebrei ungheresi da Budapest, il 1961 a Berlino con il Muro appena tirato su e il 1982, anno di nascita della protagonista che a una certa arriverà a partorirsi da sola, letteralmente, perché aver equiparato la propria venuta al mondo con fatti storici che avrebbero segnato i destini di milioni di esseri umani a un certo punto deve esserle sembrato un filo troppo umile. Per essere una che adoravamo veder ruzzolare giù dalle scale come se in sottofondo al posto delle sue adorabili imprecazioni ci fosse la musichetta di Benny Hill, qui assistiamo a un vero e proprio parossismo egotico non richiesto, finendo per venirne intrappolati a nostra volta. 

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“Nulla è facile nella vita di ognuno di noi. A parte pisciare dentro la doccia”, le dice la mamma acquisita Ruth in quella che vorrebbe essere una scena intensa e toccante. Ci ricorderemo la citazione per rivenderla al pub, ma non certamente l’emozione. Perché non c’è stata: seguire Nadia che cerca se stessa (e un buon gruzzolo di monete d’oro) rientrando in contatto psicoattivo con la nonna e la madre da giovani, diventa alla lunga un’esperienza stressante più per lo spettatore che per lei. E lei a un certo punto si ritrova coi nazisti alle calcagna, per intenderci.

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Russian Doll 2 è una storiella ombelicale che deraglia cedendo alla tentazione di prendersi troppo sul serio. Se è pur vero che l’idea della serie sia nata da tragici fatti personali, la showrunner e attrice protagonista Lyonne ha realmente rischiato la vita più volte per via delle proprie stupefacenti dipendenze e durante un delicatissimo intervento chirurgico a cuore aperto con risicate possibilità di riuscita, l’intero polpettone introspettivo, considerato che qui ci si aspettava una comedy non il Sottosopra di un film di Terrence Malick, è tortuosamente indigesto da mandar giù. Dopotutto siamo telespettatori, non psicoanalisti. Lyonne, dimentica di avere un pubblico a cui rivolgersi e restituisce, chiara, l’impressione di aver scritto solo per se stessa perdendosi nella propria fanta-epica pure multiversa come se non ci fosse nient’altro di più interessante al mondo conosciuto e conoscibile da esplorare. Eppure, non è così.

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