Complice il meteo avverso, prendetevi quattro ore per vedere la docu-serie Netflix su Robbie Williams. Diretto da Joe Pearlman (regista anche per Lewis Capaldi), è una garanzia anche perché prodotta da Asif Kapadia, premio Oscar per Amy – The girl behind the name, splendido docu-film sulla vita di Amy Winehouse.
Robbie Williams si sottopone a una specie di seduta di psicoterapia, in mutande sul letto della sua mega villa e con un Mac davanti, in cui sono stati caricati i filmati inediti dei backstage di 30 anni di carriera. Da quando, a 16 anni, ha iniziato con i Take That fino ad oggi, nel momento più risolto di tutta la sua esistenza. I periodi di down, le dipendenze da alcol, farmaci e steroidi, la depressione profonda nel sentirsi il peggior nemico di se stesso.
È lui a rovinarsi sempre la festa, consapevole della distorsione della realtà a cui è stato sottoposto troppo presto. Un'adolescenza negata, la maturità sovraesposta a critiche feroci ed assalti mediatici, l'età adulta sopraggiunta senza riferimenti solidi. "Si diventa insensibili, vedi tutto ma non senti più niente", la condanna delle star, abituate a brillare ma mai a godere della propria luce. Un sistema che non consente passi indietro, fan esigenti come con le scimmie in uno zoo. La popolarità diventa un film horror, l'interesse e il denaro armi che possono uccidere più delle droghe.
"Non sapevo più di chi fidarmi, difficile capire cosa muove chi ti sta intorno", dice con la voce rotta dal ricordo di quella solitudine provata nel momento d'oro della sua carriera, quando era circondato da 80mila persone a sera. Poi l'amore, che cambia tutto. Quello della moglie Ayda Field e dei quattro figli Theodora, Charlton, Colette e Beau. Un sentimento che scalda, porta accettazione e a una resa che guarisce. La capacità di riconoscere il presente e saperlo accogliere con riconoscenza. Sentirsi "sulla buona strada per essere felice", a 50 anni. Dopo aver attraversato l'inferno. Mica male per un lieto fine.