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L’unico motivo per cui vale la pena vedere Mercoledì è la scena della danza: il resto è noia

Gòrgoni, sirene, lupi mannari: sono tutti invitati a questo mappazzone micidiale che tira dentro i quarantenni, ma li costringe a leggere una grammatica sbilenca, fatta apposta per la GenZ.
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L'unico vero motivo per cui vale la pena perdere otto episodi della vostra vita e guardare Mercoledì, la serie Netflix di cui tutti parlano ormai da quando è cominciato il mese di dicembre, è la stranota scena della Wednesday dance. Otto episodi, signori: più di 400 minuti. Più o meno 7 ore della vostra esistenza. Fatevi bene i conti. Pensateci, c'è ancora un tempo per tornare indietro. Nel caso: episodio 4, e passa la paura. Quanto al resto: è un pot-pourri di cose già viste, dallo stesso Tim Burton, ma anche da altro. C'è dentro tutto Harry Potter ma anche Riverdale, soprattutto Sabrina e Buffy, addirittura Veronica Mars. È una muffa, mio Dio, questa serie. Del Tim Burton degli esordi, neanche la dannata ombra. Sembra una versione liofilizzata e ridotta ad algoritmo. Una copia-carbone della fotografia à la Ryan Murphy, l'ultimo Kraken della serialità televisiva. La serie, d'altronde, è in realtà firmata da Alfred Gough e Miles Millar, che sono quelli di Smallville. E si spiega tutto.

Gòrgoni, sirene, lupi mannari: sono tutti invitati a questo mappazzone micidiale che tira dentro i quarantenni, ma li costringe a leggere una grammatica sbilenca, che si presume essere fatta apposta per la GenZ (mi chiedo: è davvero così che parlano i ragazzi, oggi? Non ne sono certo). La generazione rimasta legata al reboot degli anni '90 (prima ancora dei fumetti degli anni '30 e dei telefilm anni '60) troverà quella stessa visione, quella stessa messa in scena, ma il tradimento avverrà praticamente subito. Perché la Famiglia Addams si separa sin dalle prime battute. L'incipit è appunto questo: Gomez (Luis Guzmán, pessimo: ha la forma di un cubo messicano, forse una piñata, lontano dal fascino del compianto Raul Julìa) e Morticia (Catherine Zeta-Jones quasi alla fine dei suoi giorni migliori) decidono di portare Mercoledì (Jenna Ortega, indiscussa nota positiva: enorme) al loro stesso collegio, dato che la ragazza è assai problematica. Ed ecco la Nevermore, che potrebbe chiamarsi Hogwarts se ci fossero i cappelli parlanti e i maghi. Al loro posto, un nutrito gruppo di disadattati, mostri, mostriciattoli e reietti vari. Il resto è un intreccio diluito, che avanza di minuto in minuto, senza sobbalzi, senza una vera voglia di fare altro se non puntare tutto sul carisma della protagonista, del personaggio e di quel nome che, per quanto mi riguarda, equivale ormai a una catena internazionale di fast-food: Tim Burton, appunto.

La storia va avanti senza mai considerare un minimo di coerenza narrativa, bucando a caso e forzando la chiusura delle linee narrative minori, ma quello che più da fastidio è la trasformazione di Mercoledì da simbolo anti-conformista a totem conforme a tutte le regolette del momento. E quindi, sin dal primo episodio, arrivano invettive random contro il patriarcato, contro gli sprechi, contro i fondamentalismi religiosi. Tutto assai posticcio. L'unica vera nota lieta, a parte una monumentale Jenna Ortega, è proprio l'icona Mercoledì, che probabilmente soppianterà Harley Quinn come cosplay più gettonata alle prossime fiere del fumetto. Era ora. Purtroppo, la serie è stata la più vista in queste due settimane di dicembre, polverizzando i soliti record: la seconda stagione è dietro l'angolo. Anche il finalino suggerisce: "Siete in suspence, vero?". No. Però, ormai, va bene tutto.

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Gennaro Marco Duello (1983) è un giornalista professionista. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Lavora a Fanpage.it dal 2011. Ha esordito nella narrativa nel 2022 con il romanzo Un male purissimo (Rogiosi). California Milk Bar - La voragine di Secondigliano (Rogiosi, 2023) è il suo secondo romanzo.
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