Da alcune settimane è disponibile su Netflix "Il caso Alex Schwazer", la docuserie che racconta la storia sportiva e personale vissuta dall'atleta italiano, vincitore di una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, prima di ritrovarsi a vivere traversie e problemi che hanno avuto a che fare con il doping e che hanno irrimediabilmente segnato la sua carriera. Una storia drammatica, traumatica, ma a suo modo epica per il tentativo di Schwazer di rialzarsi scegliendo come allenatore quel Sandro Donati che aveva indagato su di lui da commissario anti doping, ritrovando se stesso e le sue qualità di campione senza poterle tuttavia dimostrare, vista la l'ulteriore squalifica per doping al netto della sua innocenza.
Una serie potentissima dal punto di vista narrativo, di cui non si sta parlando quanto si dovrebbe e che merita visibilità, perché racconta un pezzo di storia dello sport di questo paese e a livello internazionale, ma soprattutto aggiunge un tassello fondamentale per la comprensione di una problematica come quella del doping che negli ultimi vent'anni ha compromesso in maniera considerevole la credibilità di alcune discipline e di alcuni atleti coinvolti.
La vicenda di Schwazer e il modo in cui viene ripercorso non potranno che alimentare una rabbia e un senso di ingiustizia nello spettatore che è difficile da risolvere. La sensazione di una carriera distrutta, annullata senza una reale ragione, per volere di enti sportivi internazionali che si sono rifiutati di indagare davvero il problema del doping, preferendo scaricare su un solo soggetto la questione; la percezione di un talento a cui sono state tarpate le ali. Insomma, è difficile che la visione de "Il caso Alex Schwazer" non stuzzichi il complottismo che è in noi, ma la serie non è solo questo.
Al contrario, questo prodotto affronta in modo assai interessante un ampio discorso sull'importanza del provare fatica, predisporsi allo sforzo, sopportarlo e affrontarlo, individuando nella pratica della fatica quotidiana il senso stesso dello sport. Prima delle gare, dell'atto di finalizzazione di lunghe fasi di preparazione e allenamento, c'è tutto questo, come Schwazer ha raccontato nella bella puntata del podcast Muschio Selvaggio sull'argomento: "Per noi atleti la gara non è il problema, il problema è tutto quello che viene prima, essere costanti nell'allenamento quotidiano, saper provare fatica". E la svolta della sua carriera per quanto spezzata, così come della sua vita, sta proprio in questo passaggio: tornare ad apprezzare la fatica.
Qualcosa che Schwazer aveva provato ad estrinsecare ancor prima di essere trovato positivo al doping, nel 2010, quando si fermò a metà gara nella competizione mondiale e si spiegò così: "Questo è uno sport dove devi essere umile, dove devi aver voglia di spaccare il mondo, e io purtroppo non lo so, considero tutto scontato. Nel rispetto di chi fa fatica qua devo pensarci sopra, così non va bene. A volte ho la sensazione che il mio fisico faccia di tutto per non fare fatica”.Parole di rara intelligenza e profondità, di grande consapevolezza, che nascondevano un malessere che stava scavando una voragine dentro Schwazer, nella quale l'atleta è sprofondato prima di rialzarsi.