In tutta onestà, non sappiamo cosa possa spingere qualcuno a pigiar play su La Casa di Carta Corea. Oltre al richiamo del titolo famoso, ovvio. Il remake del blockbuster seriale Netflix è comunque approdato sulla piattaforma venerdì 24 giugno con la chiara intenzione di rovinare il weekend agli abbonati che non avessero già tagliato la corda per tempo. E riesce nell’impresa? Sì. Se siete fan della saga iberica che ha erto la rapa in banca a trend topic manco fossimo tutti novelli Vallanzasca, vi sembrerà di rimanere intrappolati dentro a uno strambo e scolorito flashback: i personaggi, dal Professore a Tokyo, passando per Berlino e Denver, hanno gli stessi identici nomi dell’originale, le medesime tutine rosse, le scene perfino, la sexy negoziazione tra la mediatrice e il già citato Professore, sono tali e precisi. E la storia, con qualche piccola differenza all’acqua di rose, pure.
Va ribadito: perfino molte battute risuonano come un’eco nemmeno troppo lontana. Però qui siamo in Corea, appunto, ed ecco che nel bel mezzo del minutaggio malamente copiaeincollato, gli sceneggiatori calano l’asso che vorrebbe disperatamente sovvertire il risultato dando dignità all’intera operazione: la variante geopolitica. Beh, certo: che Casa di Carta sarebbe senza la geopolitica? Et voilà, lo Squid Game for dummies è servito.
Davvero: qui la trama si svolge in un ipotetico futuro in cui le due Coree, quella del Nord e quella del Sud, vengono riunite dopo anni di conflitti. Tra le conseguenze di questa reunion che rende felici un po’ tutti i coinvolti come gli abitanti di Pisa e Livorno nei pochi secondi l’anno in cui realizzano di far parte della medesima regione, c’è anche la nascita di un’unica valuta. Ed ecco che grazie a sovrumano sforzo di fantasia autorale, il Professore può ideare il proprio piano e radunare un manipolo di disadattati per rapinare la Zecca di Stato. Il tutto mentre l’animosità tra i membri dei due ex Stati indipendenti fa da fil rouge e tenta disperatamente di creare dinamiche tra i personaggi che non sappiano di mesto deja-vu. Spoiler: fallisce.
Veniamo ai meriti: recitano tutti divinamente. Del resto, nella serie troviamo, tra gli altri, attori di prestigio come Yoo ji-tae, celebre per essere stato il protagonista di Old Boy, film capolavoro del cinema coreano (e non solo), ma anche Kim Yun-jin, la Sun di Lost. La regia, poi, è di livello infinitamente superiore a quell’art attack senz’anima dell’originale. Entrambi questi elementi, pur essendo confortanti, alla lunga stridono fino al più pungente fastidio. Perché ciò implicitamente comporta che La Casa di Carta Corea abbia, di fatto, realizzato il colpo del secolo “rubando” interpreti e maestranze con tutti i crismi a qualche progetto più meritevole per incastrarli in una produzione di cui nessuno sentiva il bisogno.
Così, è nata una creatura figlia del più bieco marketing che imprigiona insieme senza alcun (con)senso due cose che funzionano: l’oramai arcinoto brand La Casa di Carta e la Corea (dopo il successo di Squid Game). Una bella idea? Schizzerà in testa all’algoritmo Netflix, ne siamo certi. Di fatto, però, trattasi di un matrimonio combinato che alla fin fine non renderà felice anima viva, manco gli invitati, ovvero gli abbonati. Che si troveranno davanti a un pranzo di nozze fatto coi resti riscaldati di uno stesso ricevimento avvenuto quattro anni prima. Condito, va detto, con un filo di violenza extra. E bon appetit.
Mettere insieme Casa di Carta e Corea è sbagliato fin dalle intenzioni perché, tra le altre cose, ignora – per non dire irride – le istanze anti-capitalstiche senza le quali Squid Game nemmeno sarebbe esistita, sfruttando un franchise di successo senza una logica o dell’amore per la narrazione. Solo perché, a occhio, forse conviene. L’equivalente audiovisivo della pizza con l’ananas, La Casa di Carta: Corea è, in buona sostanza, un’esperienza indigesta. Sei puntate in cui lo spettatore si sente sequestrato in una realtà che nemmeno gli interessa.