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Opinioni

“In nome del cielo”, l’agonia delle serie crime: non basta Andrew Garfield per fare True Detective

In Nome del Cielo (Disney Plus) è l’ennesima serie crime insapore, nonostante Andrew Garfield. Ed è solo l’ultima di una lunga sequela di titoli deludenti. Chi ha ucciso il genere poliziesco? Il mistero si infittisce mentre il pubblico, almeno per il momento, è condannato al perpetuo sbadiglio.
A cura di Grazia Sambruna
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In nome del cielo è la nuova serie crime disponibile sul canale Star di Disney Plus, lo stesso che dal 26 ottobre ospiterà la quarta di Boris. L'abbiamo vista e, purtroppo, tocca constatare che sia davvero una specie di Occhi del Cuore della prima, magnifica stagione di True Detective. Tragicomicamente simile nelle ambientazioni e nei contenuti, qui seguiamo Andrew Garfield, pur candidato all'Oscar per la sua fulgida performance in Tick Tick… Bom! (Netflix), nei panni del detective Jeb Pyre, a caccia di misteriosi estremisti mormoni che non vogliono pagare le tasse. E sono pronti a uccidere pur di evadere il fisco. Se già la motivazione di partenza dei villain risulta un filo sterile, a suggellare il tracollo arriva proprio Garfield, nemmeno un millesimo del carisma di Matthew McConaughey e capelli perennemente impomatati alla perfezione, anche durante le sequenze di funambolici inseguimenti tra la boscaglia selvaggia. Una credibilità scenica quantomeno claudicante per una serie noiosetta come ce ne sono tante altre. E il punto, forse, è proprio che ce ne siano tante altre. Da quanto tempo, infatti, la serialità crime sta spirando davanti ai nostri occhi, nonostante le miriadi di proposte provenienti da ogni parte del globo terracqueo? Siamo assuefatti al genere oppure le produzioni, negli ultimi anni, hanno perso il guizzo, nonché il piacere, di regalarci narrazioni all'altezza? In nome del cielo, le serie crime sono davvero diventate le nuove favole della buonanotte? 

Era il 2014 quando la prima stagione di True Detective debuttava su HBO, segnando un prima e un dopo nella narrazione di genere. Atmosfere cupe, piani sequenza che ancora oggi vengono studiati nelle scuole di cinema grazie alla sapiente regia di Cary Fukunaga, due protagonisti antitetici ma complementari, Matthew McConaughey (Rust Cohle) e Woody Harrelson (Marty Hart) chiamati a indagare sulle misteriose scomparse di minori e disturbanti fatti di sangue all'ombra di una setta sulla carta inesistente grazie a una granitica dose di omertà. Oggi, ne In nome del cielo, i medesimi crimini avvengono all'interno di una comunità mormona statunitense: famiglie numerosissime, omicidi, poligamie non dette e frange estremiste che sobillano odio e tensioni verso la società laica (e, soprattutto, nei confronti delle tasse). Le potenzialità di racconto che avrebbero potuto intervenire a insaporire questa narrazione sono pressoché infinite: dei mormoni si sa poco e niente, vivono prevalentemente staccati dai grandi centri abitati per preservarsi dalle tentazioni sociali e fanno fronte comune per difendere le proprie tradizioni da qualsiasi intrusione esterna. Ambientare una concatenazione di crimini in tale contesto è di certo un'ottima idea, ma purtroppo non si può plaudere alle mere intenzioni.

Le dinamiche e le usanze della comunità mormona, anche grazie a posticci flashback sulle origini di tale credo, invece di avvicinare il telespettatore, ne azzerano l'interesse, respingendolo. I tempi dilatatissimi puntellati da citazioni delle Sacre Scritture troppo spesso out of context, rendono la visione una sorta di via crucis che allontana dai misteri criminosi per avvicinarci a quelli dolorosi. Liturgicamente parlando. Eppure, il mondo tanto sacro quanto intransigente dei mormoni (con tutte le sue controversie interne) sarebbe stato interessantissimo da approfondire. Prova ne sia la docu-serie Keep Sweet: Pray and Obey che racconta esattamente la medesima storia de In nome del cielo. Solo, dalla bocca di chi l'ha vissuta davvero, tra gioie mistiche e indicibili storture. Là dove la fiction fallisce, ecco arrivare il documentario seriale. Tanto per rimanere in casa nostra, è facile richiamare alla mente il grande successo di pubblico e critica che riscosse Sanpa – Luci e Tenebre di San Patrignano (Netflix) come anche, in tempi più recenti, La Mala – Banditi a Milano (Sky e Now). A livello internazionale, storiche sono le pietre miliari del genere come Making a Murderer o anche Il Truffatore di Tinder. Ben di rado lo stesso clamore, negli ultimi anni, è stato suscitato da serie crime con attori chiamati a dipanare le matasse della trama. Stiamo assistendo a un silente ma inesorabile sorpasso? Parrebbe proprio di sì. E forse non è un peccato. 

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La velocità con cui le piattaforme sfornano titoli di genere poliziesco-investigativo è strabiliante. Non sempre nell'accezione positiva del termine. Anzi, quasi mai. Quest'estate è passata in sordina Echoes (Netflix) con la pur sempre eccezionale Michelle Monaghan (guarda caso, già in True Detective) e il neo-eletto "uomo più sexy del mondo" Henry Cavill. Se lo spunto della trama, anche qui, sulla carta era ineccepibile, lo svolgimento si è rivelato così fiacco da portare a un finale in green screen da reel TikTok. Poche le eccezioni alla regola del crime loffio e tutte riconducibili ad anni orsono: si salvano per manifesta eccellenza la prima stagione di The Sinner (2017, Netflix) e l'imperdibile serie british Broadchurch (2013, Netflix) con David Tennant e Olivia Colman (che proprio da questo titolo ha visto rinascere la propria carriera fino ad arrivare all'Oscar).

Miracoli del genere sembrano appartenere a un tempo lontano, mentre l'interesse del pubblico, fors'anche per mancanze di alternative valide, si orienta sempre di più verso il doc true crime. Poco male, il miglior mistero attualmente in circolazione è quello di Only Murders in the Building (Disney Plus): due incantevoli stagioni con Steve Martin, Selena Gomez e Martin Short alle prese con goffi omicidi nel mastodontico palazzo newyorkese in cui abitano insieme a decine di insospettabili vicini facoltosi. A metà strada tra Agatha Christie e una commedia di Woody Allen, la serie è deliziosa sotto ogni punto di vista. Ma conferma la teoria per cui il crime non sia più una cosa "seria". A ridargli dignità hanno pensato nientemeno che David Fincher con le due stagioni di Mindhunter (dal 2017, Netflix) andando però a vincere facile con le storie dei più grandi serial killer di tutti i tempi e Hannibal (2013), serie peccaminosamente interrotta alla terza stagione (Prime Video). Le atmosfere cupe, la credibilità di personaggi destinati a rimanere nel nostro immaginario come villain perfetti a cui danno la caccia detective dai lati tanto oscuri quanto geniali torneranno più ad animare l'intrattenimento seriale crime o il genere ha dato tutto ciò che poteva regalare allo spettatore e ora è la volta del monopolio del fantasy tra House of the Dragon e Gli anelli del potere? Nell'attesa di un titolo che possa finalmente sovvertire le sorti attuali del genere, toccherà ripiegare in un rifugio evergreen: tutte e dodici le stagioni de La Signora in Giallo vi attendono su Prime Video.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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