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Opinioni

Il documentario su Federer serve a dirgli addio e accettare che il tennis vivrà anche senza di lui

Com’è il documentario su Roger Federer e gli ultimi dodici giorni della sua carriera? In attesa dell’uscita il 20 giugno Amazon Prime, le prime impressioni dopo la visione in anteprima sono di un contenuto che punta alla celebrazione totale di un campione intramontabile, dal quale molti appassionati faticano ancora a distaccarsi. Tra momenti divertenti, Novak Djokovic come “terzo incomodo” e l’amicizia con Nadal, Federer saluta definitivamente con una retrospettiva sul tramonto della sua carriera.
A cura di Andrea Parrella
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I documentari più fortunati del nostro tempo, non solo quelli sportivi, sembrano ricorrere a una tecnica molto funzionale: indagare le zone d'ombra, cercare l'opacità nel personaggio raccontato e fino ad allora ignota, una sfumatura caratteriale spigolosa che ci fa osservare l'eroe da un punto di vista inedito, per lo più negativo, indispensabile alla progressione narrativa.

Il documentario che racconta gli ultimi dodici giorni di carriera di Riger Federer poteva inserirsi in questo solco, ma siccome stiamo parlando di Federer, quello di Amazon Prime Video è un prodotto che sovverte questa logica apparentemente imprescindibile. In uscita il 20 giugno sulla piattaforma, "Federer: gli ultimi dodici giorni" si impone subito per una totale linearità celebrativa, che mai tradisce la natura dell'operazione.

Un talento puro, anche nell'addio

Il lettore stia però attento a non fraintendere, qui di stroncatura non v'è traccia. La raccolta di immagini che ripercorre le ultime due settimane della carriera di uno degli sportivi più incisivi di sempre è lo specchio perfetto di Federer: un racconto limpido, senza apparenti sbavature, in cui regna una armonia assoluta. Non ci sono svelamenti, sappiamo dal minuto uno che tutto inizierà dal momento in cui Roger Federer è sul punto di annunciare l'addio al tennis, smettere di fare ciò che è sempre parso riuscirgli con una facilità disarmante, al punto da sminuire il valore della sua fatica quotidiana, la preparazione atletica, la tenuta mentale.

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"È il più forte di tutti, è impeccabile, gioca a tennis come bevesse un bicchier d'acqua", si è sempre sentito dire, quasi come se questo talento raffinato e unico, che ha coniugato atletismo, estetica ed efficacia attraverso un processo di sintesi irreale fosse scontato, gratuito. Naturalmente non è così, ma l'opera del regista premio Oscar Asif Kapadia e di Joe Sabia non ha come obiettivo la dissezione delle peculiarità tecniche di Federer, né provare quanto sia stato importante il sacrificio o raccontare come sia diventato un campione. Intende squisitamente fotografare le emozioni di chi è stato costretto a dire basta perché lo ha deciso il tempo, proprio nei giorni in cui decide di farlo.

I lati oscuri, dicevamo, ma Federer non sembra averne. Nulla da nascondere, anche le sue vulnerabilità, il cedimento alla commozione sono diventati parte integrante di un atleta che ha ambito perfezione. Kapadia e Sabia mostrano così, attraverso un sapiente uso di immagini private realizzate in quei dodici giorni, il dietro le quinte del percorso di avvicinamento a ciò che tutti hanno sempre temuto: la fine. Non è un dettaglio irrilevante, perché per molti appassionati di tennis il ritiro di Federer ha sempre avuto le fattezze di un abisso, l'orizzonte oltre il quale non c'era nulla.

Poi il trapasso, come era ovvio, è arrivato e non è un caso che si utilizzi il lessico del lutto. È successo dopo un percorso di preparazione di alcuni mesi, una lenta accettazione, ma è rimasta viva la sensazione di una chiusura incompleta, l'assenza di un suggello che quella serata di lacrime alla Laver Cup nel settembre del 2022, seppur commovente, non era stata in grado di dare per l'assenza dell'elemento agonistico. Se doveva finire con un'esibizione, era giusto sapere cosa ci fosse dietro quell'esibizione e perché Federer abbia scelto di chiuderla così.

L'incontro con Nadal, Djokovic terzo incomodo

Così il raduno della Laver Cup per l'ultima partita di Federer diventa nel documentario il racconto di un ultimo giorno di scuola, in presenza di tutti i personaggi che hanno accompagnato il nostro eroe, nel bene e nel male, lungo il suo percorso. Il rivale Rafael Nadal, un incubo con cui Federer ha imparato a convivere diventandogli amico, ma anche il rivale che si è inserito come "terzo incomodo". Così Federer definisce Novak Djokovic quando racconta il suo atterraggio improvviso, l'intromissione nel tennis dei grandi mentre a spartirsi la dominazione ci pensavano lui e lo spagnolo. C'è rispetto, ma non affetto per il serbo, che pure in un clima di garbo viene sempre percepito come elemento esterno, di disturbo, persino in questo finale festoso.

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Il siparietto su Lorenzo Sonego

In questi ultimi dodici giorni non mancano i momenti ironici, in cui emergono alcuni dettagli inattesi su quegli eventi che rendono il tennis uno sport così adatto alla frammentazione social. Un esempio su tutti quando Federer chiacchiera negli spogliatoi con Nadal e Berrettini di quanto si gridi nel colpire la palla. Roger prende in giro il Nadal degli inizi di carriera, ma si finisce per rievocare quanto successo due anni fa a Wimbledon tra Nadal e Sonego, con quest'ultimo richiamato dallo spagnolo per l'eccesso di foga con cui si liberava dopo il colpo. "Sono sicuro al cento per cento che lo facesse apposta", dice Nadal a Berrettini, che prova a difendere il connazionale dicendo: "Lo conosco da quando siamo ragazzini, ha sempre fatto così". E Federer che ride, osservandoli.

Siparietti a parte, "Federer: gli ultimi dodici giorni" è davvero l'equivalente di una messa in suffragio per l'addio di Federer, l'ultimo atto per dire addio al suo tennis e fare pace con la persecuzione dei reel che intasano i feed di Instagram ricordandoci la bellezza impareggiabile delle sue gesta e l'inconsolabile sensazione di vuoto che nessuno oggi, forse nemmeno un numero uno al mondo italiano come Sinner, riesce ancora a colmare. Questo documentario riesce, in qualche modo, a spingerci verso l'accettazione che un futuro dopo Federer, anche per il tennis, ci sarà.

Resta lo spazio, e per certi versi la fame, per quella opacità citata all'inizio, la convinzione che la complessità di un personaggio come Federer possa ancora essere sondata, per quanto sia ancora presto. Quand'è che il re di questo sport si confesserà raccontando i momenti più complessi della sua carriera, dagli inizi irascibili alla detronizzazione ad opera di Nadal, quelle lacrime di frustrazione nel 2009 dopo la finale persa agli Australian Open; o ancora l'avvilimento dopo le batoste con lo spagnolo sulla terra, il terrore di non riuscire a tornare più in campo prima di quel clamoroso rientro nel 2017; o ancora, quand'è che Federer accetterà di raccontare il dramma di quell'ultima (vera) partita giocata a Wimbledon con Djokovic nel 2019, persa clamorsamente e senza alcun senso a dispetto di statistiche che lo davano vincente sotto ogni profilo, fatta eccezione per quello del risultato finale? Attendiamo anche quel documentario, ma nel frattempo godiamoci questo.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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