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Il Caso Yara, il produttore Neri: “Bossetti crede di poter uscire, aspettava questa intervista da 10 anni”

Gianluca Neri, produttore della docuserie Netflix, racconta a Fanpage.it: “Bossetti crede nell’idea di poter uscire. Il microfonista sentiva il battito del suo cuore in cuffia e ci siamo dovuti fermare”. E sulla famiglia Gambirasio: “Siamo stati molto attenti a rispettare tutte le parti, rispettiamo la memoria di Yara. Abbiamo fatto in modo che questo documentario non arrivasse come una valanga sulle vite delle persone coinvolte”.
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A due giorni dalla pubblicazione de Il Caso Yara: Oltre Ogni Ragionevole Dubbio, la docuserie è la più vista su Netflix oltre che la più discussa dall'opinione pubblica e dai giornali. Sui social, le correnti si dividono: innocentisti, colpevolisti, complottisti. Gianluca Neri, produttore della serie, racconta a Fanpage.it sfide e le motivazioni che hanno guidato tutti quelli che hanno lavorato alla docuserie: "Il nostro obiettivo non era di rifare il processo ma di raccontare una cosa che noi come società ci siamo dati come regola, che però non rispettiamo mai, cioè avere la certezza assoluta prima di mandare in galera qualcuno". Inoltre, ci svela tutti i retroscena della creazione della docuserie e le sue impressioni sui protagonisti della vicenda"Bossetti crede nell'idea di poter uscire. Il microfonista sentiva il battito del suo cuore in cuffia e ci siamo dovuti fermare". E sulle modalità d'ingaggio, tutti erano stati avvertiti della produzione a partire, ovviamente, dalla famiglia Gambirasio: "Siamo stati molto attenti a rispettare tutte le parti, rispettiamo la memoria di Yara. Abbiamo fatto in modo che questo documentario non arrivasse come una valanga sulle vite delle persone coinvolte". 

Yara Gambirasio
Yara Gambirasio

Come stai vivendo questi primi giorni dopo la pubblicazione della docuserie?

Sono contento che si sia scatenato un dibattito e mi piace quando il dibattito non si limiti all’innocenza o alla colpevolezza di Bossetti, ma sul concetto di ‘ragionevole dubbio’. Il nostro obiettivo, infatti, non era di rifare il processo ma di raccontare una cosa che noi come società ci siamo dati come regola, che però non rispettiamo mai, cioè avere la certezza assoluta prima di mandare in galera qualcuno.

Sapevate di fare qualcosa di divisivo?

Noi siamo stati molto attenti a rispettare tutte le parti. Quando siamo arrivati a Brembate, abbiamo scritto a mano e imbustato una lettera nella casella dei genitori in cui dicevamo che avevamo buonissime intenzioni, rispettavamo loro e la memoria di Yara, ci premeva proteggere anche loro.

Il lavoro su questa docuserie parte nel 2017, ben prima di SanPa. 

Ero in un momento radicale di cambio vita, venivo da faccende giudiziarie grazie a Dio finite benissimo (VipLeaks con Selvaggia Lucarelli, entrambi assolti con formula piena per non aver commesso il fatto, ndr) e Netflix era arrivato da pochissimo. Ho visto “Making a Murderer” e mi sono detto: un documentario in 10 puntate non so se lo guarderei. Il cliffhanger della prima puntata mi ha lasciato a bocca aperta come quando guardavo Lost.

E da qui è partito tutto?

Mi sono detto che Netflix avrebbe cercato storie italiane e penso che Il Caso Yara sia la più bella, come dice Augias nel documentario “sembra scritta da un creativo in stato di grazia” per i colpi di scena che ci sono. Ho iniziato quindi a documentarmi da solo, ho letto tutti i libri, ho frequentato i forum degli innocentisti, dei colpevolisti, dei complottisti per farne un pitch. Inizio a entrare nel caso avendo chiaro i punti base. Quello che succede è che secondo l’accusa, Bossetti avrebbe ucciso Yara quella sera stessa e Yara è rimasta per tre mesi su quel campo. Mi è venuto in mente: ma tutte le società aerospaziali che vendono le immagini a Google per fare le mappe, non avranno avuto un satellite che passava di lì in questo intervallo di tre mesi?

E una foto del campo c’era. 

Un satellite chiamato Westworld 2 passava proprio di lì a gennaio, in un momento in cui il corpo doveva esserci. Obiettivamente, sembrava che il corpo non ci fosse. Dò questa fotografia agli avvocati, che pensavano di ricevere una segnalazione di un mitomane, e invece questa cosa mi dà possibilità di partecipare come consulente indipendente al processo. Il giudice in appello decise di non ammettere altre prove e non accettò la foto, ma questo mi diede la possibilità di studiare sui 60 faldoni dell’inchiesta, cioè sulla vera inchiesta. Roba a cui avevano accesso solo gli avvocati. Questa cosa ha cambiato molte convinzioni che avevo perché le notizie che venivano date non erano esattamente precise. Insomma, ho passato parecchio tempo a studiare. Poi, io arrivai a fare il pitch per Netflix, ma si fece prima SanPa perché era uscito un documentario su Yara da poco.

Che impressione ti ha fatto Massimo Bossetti? 

Lo abbiamo intervistato in due giorni io e Carlo Gabardini. Come puoi immaginarti, era dieci anni che si immaginava come fare quest’intervista. Era molto agitato, era arrivato come quei maturandi che sanno tutto, parola per parola, ma accesa la telecamera s’era scordato tutto. È andato in iperventilazione e quindi abbiamo scelto di fare delle domande interlocutorie per calmarlo. Il microfonista ci diceva: “Guarda che sento il cuore che gli batte in cuffia”.

E poi? 

Poi, è diventato un po’ più sciolto. Prima parlava come gli atti dei carabinieri: “Quella volta che mi hanno tradotto…”. Noi allora pian piano siamo riusciti a fargli capire che doveva parlare come fosse al bar. In due giorni ci siamo riusciti, lui però era molto teso perché sembrava consapevole che questa potesse essere l’ultima occasione. Lui crede molto nell’idea di poter uscire.

Tra le figure chiave, quella di Cristina Cattaneo, il medico legale. Le sue testimonianze sono forse le più forti, penso alla battuta finale che la fa uscire di scena “Io ho una mia versione dei fatti che però non condivido pubblicamente”. 

Lei è una figura importante, ma non solo per il caso Yara. Lei viene chiamata come anatomopatologa per tutti i casi più importanti d’Italia. Non aveva molta intenzione di analizzare la perizia che aveva fatto e abbiamo cercato di arrivarci per vie traverse. Non aveva però intenzione di riaprire il dibattito, sostenendo che queste sono perizie non pubbliche e su questa cosa devo darle ragione.

La pm Letizia Ruggeri è una delle protagoniste della vicenda eppure non ha partecipato alla docuserie. Come mai?

È stata molto gentile nel rispondere che non poteva, ma del resto lei aveva già fatto parte del documentario precedente prodotto da Sky/BBC (Ignoto 1, ndr) e il CSM l’aveva redarguita perché si era fatta riprendere in situazioni quotidiane. Anche se avesse voluto partecipare, probabilmente non avrebbe potuto. È stata però molto gentile quando l’abbiamo avvisata, perché noi questo abbiamo cercato di fare: di non far arrivare come una valanga questo documentario. Abbiamo avvisato tutti, anche gli avvocati dell’accusa. Abbiamo detto loro che se volevano potevano partecipare, hanno preferito no perché la famiglia non voleva riaprire vecchie ferite.

Dalla docuserie emergono le figure della maestra di ginnastica Silvia Brena e del custode Valter Brembilla. Entrambi non sono mai stati iscritti nel registro degli indagati. Come mai?

Dal punto di vista tecnico, la pm ha richiesto che potessero essere intercettati. Sono stati intercettati per un periodo di uno o due mesi e non è emerso niente da queste intercettazioni. Il magistrato ha quindi deciso di non rinnovarle. Dall’altro lato, quando loro hanno trovato il DNA di un Guerinoni sul campo, come dicono, “pensavamo di essere arrivati a un giorno o due dalla cattura dell’assassino”. E invece, lì c’è stato il colpo di scena. Nessuno dei figli di Giuseppe Guerinoni era l’assassino e si è aperta una caccia al tesoro durata quattro anni. L’indagine ha fatto molto affidamento a questa pista ed è sembrata talmente tanto vicina all’assassino che, probabilmente, altre piste sono state meno considerate.

“È stata una vicenda di ipnosi collettiva”, suggerisce Luca Telese nel documentario. Ma un lavoro del genere può riaprire il caso? 

Nell’esperienza di Netflix c’è già il film di Cucchi. Senza quel film fondamentale, non so se sarebbe stata fatta giustizia. Ma è molto difficile in Italia riaprire un processo. C’è un procedimento in ballo sulle 54 provette che sono state spostate. Credo che queste cose cambino l’opinione delle persone piano piano. Noi non siamo per l’innocenza o per la colpevolezza. Siamo per far applicare un articolo del codice che ci siamo dati per essere una società civile. Se non hai l’assoluta certezza della colpevolezza di una persona non puoi mandarla in galera. Anche se immagini che quello possa essere il cattivo, la nostra cultura ci dice che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. L’opinione pubblica, la stampa, spesso dimenticano questo principio fondante del nostro sistema giudiziario.

C’è stato qualcuno che ha cercato di ostacolarvi durante le riprese?

No, abbiamo avuto più problemi per SanPa. Solo qualche testata non ha voluto darci materiali, ma questo fa parte dell’ordine naturale delle cose. Come ti dicevo, abbiamo voluto avvisare tutti prima di muoverci. Nella nostra politica, noi diciamo che intendiamo fare un documentario che contempli tutte le posizioni. Chi accetta di dare l’intervista, lo sa. Noi rispettiamo l’intervistato, lo mettiamo a suo agio e gli diciamo che se non sente che l’intervista vada come vada, può ritirare tutto. È fondamentale empatizzare con le persone, indipendentemente da chi si ha davanti.

Il true crime ha ancora vita lunga? 

C’è un telefilm messicano in cui c’è un conduttore che inizia a ordinare degli omicidi, visto che sono finiti. Spero che sia un filone in decrescita, solo perché spero ci siano meno delitti. Il punto è che è un genere che da sempre esiste. È la cronaca nera. Durante il fascismo, fu addirittura vietata. È un genere che ora è un filone d’oro, ma inevitabilmente tra un po’ non ci saranno più tutte queste offerte, tutti questi podcast. Si salveranno i migliori, ecco.

Qual è il futuro per la casa di produzione? 

Abbiamo almeno quaranta nuove idee che vengono mandate un po’ a tutti. Vorremmo cercare storie belle che non sono state ancora raccontate su tutti gli aspetti. Vorremmo che ci sia qualcosa di nuovo da raccontare. Abbiamo anche una parte che stiamo sviluppando che riguarda le fiction.

C'è un progetto in particolare?

Vogliamo fare un film che racconta una storia accaduta a Vittorio De Sica, è una specie di Schindler’s List italiano. In una chiesa, che è territorio del Vaticano, si rifugiavano tutti quelli cacciati da nazisti e lui diede un lavoro a tutti in ambito teatrale e cinematografico. Ha salvato comunisti, ebrei, gay che riempirono quella chiesa, iniziando a viverci dentro, aspettando che gli americani arrivassero ad Anzio.

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