“Il vaso di Pandora è stato aperto”. Così Robbie Williams, disteso sul letto della propria mansion, inizia la seconda puntata dell'omonima docu-serie Netflix dedicata alla sua carriera ma, soprattutto, alla sua vita. “È una cosa che si dovrebbe fare forse solo davanti a San Pietro nei cieli questa di passare in rassegna tutto ciò che si è compiuto nel corso dell'esistenza”, aggiunge. L’impressione, in ognuna delle quattro puntate che fanno parte del progetto (in streaming da mercoledì 8 novembre) atto a celebrare i 25 anni di attività dell'artista, è che il cantante, anzi la superstar, si vergogni. E che si vergogni profondamente. Di se stesso.
Assistere allo scorrere del successo di Williams, non è il carnevale, il trionfo che ci si potrebbe aspettare. E consigliamo di prenderne visione consapevolmente. Robbie Williams, celeberrimo dall’età di 16 anni quando mollò la scuola per entrare nei Take That e diventare una stella, si è costruito, negli anni, un inferno personale. Che poi ha abitato e arredato, dandogli sempre più spazio, fino a lasciarsene quasi completamente divorare. Mentre, là fuori, tutto il mondo, ignaro, lo acclamava come fosse un semidio.
Intendiamoci: i milionari che piangono a chi scrive non hanno mai fatto, non fanno né mai faranno simpatia. Piuttosto, l’effetto contrario: un fastidio epidermico, volendosi fermare agli eufemismi. Sembra che sciorinare sciagure sia il trend, l’espediente principe, per racimolare attenzione mediatica, oggi come oggi, e allora ogni documentario biografico, come anche la maggior parte delle interviste, si tinge di nero, di fragilità emotive inaspettate che vorrebbero trascinare il pubblico a empatizzare. Una patina la maggior parte delle volte posticcia perché una celebrità che racconta i propri patimenti nella sua jacuzzi innanzitutto non si rende conto che la vita di chi legge o guarda è altra cosa. Il distacco dalla realtà è palese e anche Robbie Williams ne soffre. Solo, caso più unico che raro, dimostra di avere la credibilità per parlarne senza provocare reazioni allergiche nello spettatore. Un bene per la docu-serie. Purtroppo, non per la sua vita.
Depressione, dipendenza da alcol e droghe, abbondantissime iniezioni di steroidi prima di ogni concerto davanti a 60-75mila persone, insofferenza alle critiche dei giornalisti, che, soprattutto in UK, non ci sono mai andati piano con lui, a quanto pare. Nei decenni di massimo splendore della sua carriera, Robbie Williams metteva parallelamente in atto un lento ma inesorabile processo di autodistruzione. E questo, grande trovata della docu-serie, non lo sappiamo perché ce lo dice lui. Lo sappiamo tramite filmati inediti da backstage di concerti faraonici e altrettanto sontuose cerimonie di premiazione: di fronte a ogni successo, Williams appare totalmente disinteressato. Oppure, strafatto.
“Trauma chats” (chiacchiere sui miei traumi, ndr) è come il nostro protagonista sintetizza l’intera docu-serie, non ancora doppiata in italiano, e per tutto il tempo dà l’impressione di chiedere scusa, di sentirsi tuttora profondamente addolorato per non essere stato, a suo modo di vedere, all’altezza della fama mondiale che ha ottenuto. Una faccia che buca lo schermo, sopraffino autore di testi, bella voce, presenza scenica impressionante. Non nascono tanti Robbie Williams né al giorno d’oggi, né a quello di ieri. Predestinato al successo, è come se avesse firmato un patto con Mefisto ancora prima di venire al mondo: avrai tutto. Ma non riuscirai a goderti niente.
Del resto, questa tendenza all’insoddisfazione quando non proprio all’autodistruzione non è mai stata un segreto. All’infuori delle canzoni d’amore, Williams ha sempre lasciato crateri di indizi nei testi dei suoi brani. Esempio principe, forse, Come Undone, una delle sue hit più belle e personali. Oltre alla critica all’industria musicale che gli fa scrivere ballad sentimentali “sincere” di giovedì cosicché possa comprarsi uno yacht la domenica, il ritornello inizia con un verso che è fotografia nitidissima e lancinante del propria perenne disperazione: “They're selling razor blades and mirrors in the street” (“Vendono rasoi e specchi per le strade”, ndr). Parafrasando, in ogni momento hai a portata di mano un modo per guardarti in faccia e poi per farla finita. Andare avanti “sfatto”, sperando che nessuno ti veda nel momento in cui rincasi perché ti vergogni di te stesso e dello “schifo” che sei, è un atto che richiede costantemente un coraggio da leoni.
E proprio un leone Williams si è tatuato sul braccio, con sotto le parole "Born to be mild" ("Nato per essere mite"invece di "Born to be wild", cioè "nato per essere selvaggio") e sopra la scritta "Elvis, grant me serenity". Il richiamo è manifesto anche nel docufilm: “Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”, è la preghiera che è diventata poi motto programmatico degli Alcolisti Anonimi e che la popstar recita con lo staff e i musicisti prima dei concerti.
A salvarlo dal baratro è sempre stato l’amore. Non certo quello che descriveva nelle canzoni. Le uniche volte in cui oggi sorride guardando i filmati della sua vita, sono quelle in cui si vede in coppia con Nicole Appleton delle All Saints, poi con Geri Halliwell delle Spice Girls (a cui è ispirata e dedicata la ballad Eternity) e finalmente insieme alla moglie Ayda Field, il suo dono del cielo che più di una volta lo ha tenuto insieme trascinandolo fuori dall'abisso per i capelli. Sposati dal 2010, hanno quattro figli e oggi sono una famiglia felice.
Guardare la docu-serie su Robbie Williams è come assistere a una privatissima seduta di terapia della durata di quattro ore. Un consiglio, davvero dal cuore: prima di pigiare play, assicuratevi di essere di ottimo umore perché i tempi di “Let me entertain you” sono ben lontani. Anzi, forse, amarissima verità, con quell'entusiasmo non ci sono mai stati.