“Con chi sono stato sposato per quindici anni? E come fa a essere ancora luglio?”. Fleishman a Pezzi, serie disponibile su Disney Plus da mercoledì 22 febbraio, è un eccellente pugno in faccia a chi nell’amore vorrebbe ancora credere. Che i romantici ne stiano alla larga, dunque. La vivisezione che la sceneggiatura opera su matrimonio e sentimenti non lascia alcuno scampolo di speranza: stringi stringi, già innamorarsi è una follia che comporta conseguenze ferali, figuriamoci dirsi di sì “per sempre”.
A farne le spese sulla propria pelle è Toby Fleishman (Jesse Eisenberg, The Social Network), quarantenne newyorkese che, di punto in bianco, subisce l’abbandono della moglie Rachel (Claire Danes, Homeland). Lo molla con i loro due figli di 6 e 12 anni per andare a fare yoga in un resort esclusivo, pare. Non torna più. Toby attraversa tutte le fasi del “lutto”, a partire dall’impotenza davanti a una situazione improvvisa, brutale che non può né cambiare né accettare. La narrazione scandaglia pensieri, parole e opere (anche piuttosto porcine) di Toby grazie a una voce fuori campo che, se da una parte rende ogni puntata particolarmente verbosa, dall’altra mette fin da subito in luce come la serie sia tratta da un romanzo, l’omonimo best seller scritto da Taffy Brodesser-Akner.
Piena di vicissitudini e sciagure, non fatevi ingannare dal titolo italiano: non si tratta di una dramedy brillante à-la Harry a Pezzi di Woody Allen. Al netto di qualche battuta brillante, si piange moltissimo, per tutto il tempo. Ed è questo che vuole ogni puntata, scudisciare i nostri ventricoli e le certezze che abbiamo bene o male costruito fin qui su amore e altri disguidi. Va vista, sì, ma con alcune premesse per non farsi troppo male.
Fleishman a Pezzi non lascia scampo: mette davanti al fatto che le persone siano nate per evolvere, cambiare, grazie, a causa o anche a prescindere da ciò che gli possa capitare nella vita. Ha senso, dunque, sceglierne una “per sempre” e su di lei investire la propria esistenza? “Ci sono alcune domande che sarebbe meglio non farsi mai perché non hanno risposta”, ricorda spesso la serie. E, in effetti, è così.
Tramite flashback, la loro zoppicante love story viene vivisezionata fin dall’inizio, da ancora prima che si conoscessero. Ma l’intuizione più interessante da cui prende le mosse la serie è quella di andare a scandagliare il dolore maschile dopo la fine di un matrimonio. Le prime sei puntate, su otto, sono interamente dedicate al punto di vista di Toby. Non è cosa da poco, visto che forse per la prima volta in una serie tv di oggi, si assiste a un ribaltamento: non è una donna a essere stata lasciata dalla sera alla mattina e a doversi reinventare, con più o meno grinta, una vita in solitaria con due figli a carico, ma un uomo. “Lei in questa situazione è la moglie, signor Fleishman”, gli ricorda l’avvocato divorzista. Rachel guadagna più di lui e si è data alla macchia. Gli alimenti, però, li paga. Perciò risulta pressoché impossibile contestarle l’abbandono o pretendere che rispetti la custodia condivisa.
Il dato oggettivo che emerge con molta lucidità, una buona volta, è come il dolore non abbia sesso: Toby soffre come un cane, baratterebbe ogni secondo di quella “nuova libertà” per riavere indietro la sua vita di prima, scornate coniugali comprese. Intanto, visto che qualcosa deve pur inventarsi, prova le app di incontri, le sbronze con gli amici, tenta di convincersi che quella sia una rinascita, si butta a capofitto nel lavoro ancor più del solito. Ma poi si ritrova solo a fissare il soffitto e questua alla notte uno sconto di pena. Che, puntualmente, non arriva mai. La morale è, quindi, questa? Sarebbe meglio non imbarcarsi in progetti di vita basati sull’amore? No, nemmeno ciò garantirebbe un qualche surrogato di serenità.
Fleishman a Pezzi è una serie crudele. Non lascia alcuno spiraglio alla speranza, salvo un abbozzo nel finale che, dopotutto, non concede una vera e propria redenzione a quelle brutte bestie che sono i sentimenti. E sarebbe stato fuori luogo il contrario, viste le dolenti note su cui la narrazione porta avanti il proprio nevrotico requiem di episodio in episodio. L’amore esiste, per un po’. Bisogna però tenere a mente, per farsi meno male quando l’inevitabile accadrà, che sia come fare autostop nella vita di qualcuno. A un certo punto, si scende. E quel qualcuno, nonostante le apparenze e qualche chiacchiera sulla via, rimarrà inconoscibile, almeno quanto ognuno di noi a se stesso. Perché siamo tanti piccoli esseri miseri che agiscono in funzione del proprio ombelico, vedendo troppo spesso solo quello. Non è una colpa, siamo fatti così per natura. “Non ci sono eroi, non esistono buoni e cattivi”, ricorda la voce narrante. C’est la vie. Le piattaforme streaming propongono infinite possibilità di scelta. Questa serie, come l’amore, è solo per coraggiosi.