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Opinioni

Eric, la miniserie Netflix con Benedict Cumberbatch è una grandissima perdita di tempo

Per fare le cose non servono tante idee, ne basta mezza purché sia buona. Eric, la serie più vista su Netflix al momento, non ce l’ha.
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Un figlio. Un figlio è come un’orchidea. Ti fiorisce in faccia anche se tu non la innaffi. Su questo concetto, che comunque non è partorito dalla serie ma è mutuato da un’opera a mio parere pure più importante (Cupio Dissolvi di Jessica Cafarelli, Divergenze), si muovono i primi passi di Eric, la serie del momento su Netflix con Benedict Cumberbatch protagonista, diretta e scritta da Abi Morgan.

La storia è semplice: Vincent è un puparo, un burattinaio creatore di una serie televisiva di pupazzi per bambini, alcolizzato e narcisista, con un matrimonio a pezzi e un figlio piccolo, il quale ha ereditato tratti della sua creatività, che lui sembra sfidare di continuo a fare di più e meglio. Un mattino, nel mezzo di una classica lite coniugale sul tema “chi accompagna il piccolo a scuola. Tocca a te! No, tocca a te!”, questi si allontana e decide di fare da solo. Sparisce. Sullo sfondo la New York degli anni Ottanta, un locale frequentato da escort omosex con passate derivazioni nella prostituzione minorile – un cliché che puzza di gorgonzola – che si trova sotto casa e che viene quindi immediatamente attenzionato da un detective di colore, gay pure lui, con un trascorso sentimentale con il proprietario del locale. A lui toccherà indagare in una metropoli devastata dalla corruzione, dalla sporcizia, dal malaffare. C’è l’Aids – perché siamo ovviamente negli anni ’80 – e ci sono decine di storie laterali che confondono le idee episodio dopo episodio (sei, in tutto). Tutti, agli occhi di chi guarda, sono sospettati: il portiere del palazzo, l’amante della madre, il migliore amico del padre e, dulcis in fundo, lo stesso padre.

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Più andiamo avanti nella storia, più scopriamo le ragioni che hanno portato il personaggio di Benedict Cumberbatch a essere quello che è. E, indovinate un po’?, tutto sembra risolversi nel malessere della famiglia borghese benestante americana: genitori egoisti e anaffettivi che svolgono anche una funzione di primo piano nella società. In parole più semplici: i soliti stronzi. C’è un tale accumulo di idee in questa serie che, stringi e stringi, non ne viene sviluppata neanche mezza. D’altronde lo diceva persino Indro Montanelli: per fare le cose non servono tante idee, ne basta mezza purché sia buona.

Eric l’idea buona pure ce l’aveva: il pupazzo-coscienza nella testa di Cumberbatch, appunto “Eric”, nato dai bozzetti lasciati sulla scrivania dal figlio. Un’idea che abbiamo già visto almeno due volte: “Nel paese delle creature selvagge” di Maurice Sendak, diventato un film di Spike Jonze nel 2009; la serie, purtroppo sospesa, "Happy!" tratta dal fumetto di Grant Morrison. Qui, il pupazzo gioca a fare la coscienza del protagonista ma in realtà confonde le idee dello spettatore. È questo grande pupazzo a dettare i tempi e mandare avanti la narrazione quando non tiene più: è il padre, il colpevole? Anzi, no. E invece sì. Anzi, di nuovo, no e poi no. Una narrazione inattendibile mascherata da un'unica (duplice, perché interpreta pure la voce del pupazzo) grande interpretazione: quella di Cumberbatch. L'unico motivo per cui, in fondo, tutti hanno schiacciato play e dato credito a una serie che è davvero troppo confusa per essere, in definitiva, simbolica di almeno uno degli obiettivi che si pone.

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Gennaro Marco Duello (1983) è un giornalista professionista. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Lavora a Fanpage.it dal 2011. Ha esordito nella narrativa nel 2022 con il romanzo Un male purissimo (Rogiosi). California Milk Bar - La voragine di Secondigliano (Rogiosi, 2023) è il suo secondo romanzo.
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