Call my agent Italia, Maurizio Lastrico: “Rispettiamo la serie originale francese senza imitarla”
Dal 20 gennaio arriva su Sky "Call my agent – Italia", adattamento nostrano di una delle serie più apprezzate degli ultimi anni a livello internazionale, la francese Dix pour cent, che racconta la storia dei dipendenti di una nota agenzia di spettacolo che si misurano con la gestione di grandi star del cinema (nella serie sono Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Matilda De Angelis e Corrado Guzzanti) barcamenandosi tra imprevisti, contrattempi e capricci tipici dello star system, sfociando in situazioni paradossali ed esilaranti. Tra gli interpreti principali della versione italiana c'è Maurizio Lastrico, che interpreta Gabriele, equivalente dell'omonimo Gabriel interpretato da Grégory Montel. Lo abbiamo intervistato per capire come si è approcciato ad uno dei personaggi con maggiori sfaccettature caratteriali ed emotive di questa serie.
Il tuo Gabriele è molto vicino al Gabriel dell'originale francese Dix pour cent, pur conservando una sua originalità. Come hai lavorato per restare legato a quel riferimento senza cadere in una similitudine eccessiva?
Sono un fan dell'originale e vedendo il lavoro di Grégory Montel – con cui ho parlato anche diverse volte – sono partito da un lavoro molto buono ed efficace di umanità e rapporti. La traccia era già molto forte, nel momento in cui siamo entrati in un mondo prettamente italiano, in cui i rapporti sono segnati da maggiore calore, a me è venuto molto naturale entrare nel ruolo. Il modo per riadattarlo, ovviamente, non era imitare le sue espressioni, ma intercettare l'umanità, le difficoltà, che sono il motore di questo personaggio.
Secondo il tuo carattere, come agente saresti più simile al sensibile Gabriele, alla pragmatica Lea o al cinico di Vittorio?
Forse a Gabriele, ma credo che se facessi l'agente sarebbe finita la carriera di tutti quelli che assisto. Sono un disastro, le contrattazioni mi fanno sudare, le sento sempre come un qualcosa di poco sincero, una lotta che richiede una strategia dalla quale, in qualche modo, esco sempre sconfitto. Ammiro queste persone che si prendono una gatta da pelare, però avendo avuto anche esperienze da educatore, penso che la componente umana – anche andando spesso a discapito della precisazione e quel necessario distacco – è fondamentale importante anche in questo lavoro.
Il mondo dello spettacolo è così come lo vediamo in questa serie?
In certe cose è meglio, in altre è peggio, ma inevitabilmente noi ci siamo ispirati a diversi fatti accaduti e a certi tipi di comportamenti. Ovviamente la serie non ha un intento documentaristico, ma ha tante cose specifiche, a volte esplicitate a volte più nascoste. È un'indagine più emotiva che non proprio rappresentativa dal punto di vista fotografico.
L'aneddotica è parziale ma non del tutto inventata, insomma.
No, assolutamente, Poi va detto che avevamo tutte queste guest star che si sono messe in gioco capendo lo spirito giusto, quello di sputtanarsi nel senso bello, in chiave peggiorative. Chiaro che Sorrentino non sia così, non potrebbe relazionarsi col mondo, però ha preso una sua caratteristica, un suo desiderio, facendo fotografare in modo paradossale la cosa. Un'operazione autoironica di grande valore.
Il senso di Call my agent è smitizzare un mondo che appare distante anni luce.
Sì, assolutamente, lo normalizza. Il tutto inserito in una narrazione, una storia semplice ma fatta di rapporti umani. La specificità del mondo dello spettacolo determina un contrasto forte tra alto e basso, che è fondamentale anche per la comicità.
La forte similitudine con la serie originale di personaggi e situazioni dipende da vincoli forti imposti dal format francese?
C'è stata grande libertà da parte dei creatori francesi, anche perché loro per primi erano affascinati dalla collocazione del format dentro una Roma che è anche capitale di un certo cinema. La traccia c'era ma ha vinto la scena, non imitiamo l'originale, abbiamo preso altre direzioni sempre con l'obiettivo del rispetto del format originale.
C'è una situazione di quelle raccontate per le guest star di questa serie alla quale ti sei sentito più vicino per esperienza personale?
Sicuramente l'episodio di Stefano Accorsi, avere più set e impegni contemporaneamente, quella specie di paura di essere dimenticati, di non essere all'altezza, un senso di inadeguatezza colmato con tante richieste alle quali si dice sì. Si vuole accontentare tutti perché è una specie di dipendenza dalla conferma. Ci combatto, anche se non ai livelli così patologici come la racconta Accorsi.
Dire di no è tra le cose più difficili nella vita e forse nel vostro mondo lo è ancora di più.
E sì, la nostra carriera assomiglia molto a una partita di poker, sei lì e ti dici "se esce un altro cuori posso fare una scala a colori". Poi c'è anche un'altra componente, non dire no per non apparire snob, ti dici che in fondo vai a fare una cosa che ti piace e rimandi molti passatempi, gli affetti. Viene molto facile sottrarre elementi della nostra vita che invece andrebbe salvaguardata, naturalmente senza snobismi.
Nella loro spietatezza, questo è il senso degli agenti: occuparsi silenziosamente dell'organizzazione della vita dei propri assistiti.
È un mestiere molto delicato che richiede un'etica particolare, una sensibilità, perché si tratta un aspetto degli attori che non riguarda solo la carriera e i guadagni, ma qualcosa a cui gli artisti sono votati e per la quale hanno fatto grandi sacrifici nella maggior parte dei casi.
Negli ultimi anni sei passato da prodotti molto popolari a titoli più sofisticati. Il tuo ruolo di attore è ormai un carburante fisso della tua carriera, è accostabile a quello di comico sul palco, oppure le due cose tendano ad escludersi?
È una domanda ricorrente che mi pongo. Ciò che mi racconto, e spero sia la verità, è che la pluralità di questi percorsi in realtà alimentino uno l'altro, creando rimbalzi positivi. Ci credo molto, è forse una forma di divina provvidenza laica, se tu fai bene una scena, questo anche fra cinque anni può rimbalzare positivamente. Penso a un esempio, il pezzo che io faccio a Sanremo è un numero di cabaret ma fatto con una collega che mi sceglie per andare con lei, con la quale ho recitato in una serie. Senza le varie parti quella cosa non sarebbe arrivata. Chiaro che certi percorsi non puoi prevederli. Ovviamente il live mi dà una gratificazione enorme, è la cosa alla quale ogni mattina mi dico che non vorrei rinunciare.
I tuoi ruoli in fiction e serie Tv hanno permesso al pubblico di scoprirti oltre la chiave comica.
Sì, mi piace pensare a questo corto circuito, mi piace l'idea di interpretare ruoli drammatici e anche i cattivi veri. Questa carriera di attore non mi permette ancora di vedere confini o limiti. Presto lo capirò, ma finché non lo capisco va bene. Anche perché così si genera una visibilità che porta persone a teatro.
Presto parlare di seconda stagione, ma nella versione francese il personaggio di Gabriel si trova al centro di un mezzo flirt con la sua assistita Monica Bellucci. Facendo un esercizio di fantasia chi ti immagineresti come equivalente italiana? Magari la stessa Bellucci.
Eh, perché no. Cavolo non ci avevo pensato, spero sarà un personaggio incredibile, di quelli che quando torno al bar di Sant'Olcese, a casa mia dove sono nato, tutti possano invidiarmi.