Boris 4, la recensione: un’altra televisione è possibile ed è ciò di cui avevamo bisogno
"Perché voi italiani siete un po' stronzi". Così chiude una delle sue call Allison, capoccia americana della fantomatica "piattaforma" per cui la squadra di Renè Ferretti è chiamata a girare La vita di Gesù a puntate. E lo siamo davvero, per fortuna. Nell'epoca del politicamente corretto era difficilissimo ipotizzare un ritorno di Boris, la serie fuoriclasse italiana che ha fatto la storia della tv nostrana, sbeffeggiandone le fiction con feroce e puntuale cattiveria. Basti pensare ai tormentoni che le tre stagioni precedenti ci hanno regalato (e che negli anni hanno trovato nuova linfa sul web mutando forma in meme): "Cagna maledetta", "Il Merda", "A cazzo di cane" e via insultando, queste e tante altre sarebbero tutte espressioni ora vietatissime all'interno di sceneggiature valutate dal sempre retto "algoritmo", l'entità che approva o boccia i progetti per lo streaming. La quarta stagione di Boris, dunque, è un piccolo grande miracolo. La prossima volta che sentirete ripetere l'ammorbante refrain "Di questi tempi non si può più dire nulla", fate presente che Boris 4, pur sapendolo, ha detto tutto lo stesso. Su Disney Plus.
"L'inferno è pieno di quarte stagioni", epitaffia uno dei tre storici sceneggiatori incapaci (ma sempre pagatissimi) che questa volta sono chiamati a "semplificare" il Vangelo a caccia di "Ghost" (traumi del protagonista Gesù) e "High Concept" (ancora non s'è capito cosa sia) individuando anche "Storie Teen" nel Nuovo Testamento. Senza dimenticare, naturalmente l'"Inclusion". F4, basiti. Queste le indicazioni fondamentali della "piattaforma" per poter dare la "greenlight" al progetto. Altrimenti, "tutti a casa ad aggiornare il cv". Un'impresa sostanzialmente impossibile, se consideriamo anche il cast e le maestranze: gli stessi identici cani di una volta. Ritroviamo Biascica, il maestro della fotografia Duccio Patané con l'assistente (sempre schiavo) Lorenzo e soprattutto i due protagonisti della mitologica fiction Occhi del Cuore: i temibilissimi Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) e Corinna Negri (Carolina Crescentini). A dirigere i lavori alla disperata ricerca della qualità, il regista René Ferretti (Francesco Pannofino) coadiuvato dal suo pesce rosso diciassettenne Boris, dall'aiuto regia Arianna Dell'Arti (Caterina Guzzanti) e dall'ex Uomo-Rete Lopez. Ma "Seppia", lo stagista vessato nelle tre precedenti stagioni? C'è anche lui, naturalmente. Con un nuovo incarico che non siamo certo qui a spoilerarvi.
Boris 4 si apre con questo manipolo di inetti costretto dalla piattaforma a frequentare un "corso comportamentale" per imparare l'importanza di usare desinenze in "u" quando ci si rivolge ai collaboratosi sul set. In sottofondo, grazie anche al commovente ricordo dedicato alla segretaria di produzione Itala, flashback delle scene in cui si menavano di santa ragione ai bei tempi andati e Biascica che si chiede dove sia finita la "poesia" di quell'era gloriosa per la televisione italiana. Boris 4 è qui per dimostrarci che c'è ancora, proprio tutta. "Lo dimo?" ma sì, lo dimo: basta saperla scrivere. Dai, dai, dai!
Gli autori Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, pur orfani del compianto Mattia Torre, riescono, in sole otto puntate, a dar vita a un ritratto squisitamente spietato della tv italiana che rimane quel che è anche ai tempi dello streaming. Molto c'era da prendere in giro e tutto è stato dissacrato: se le "protezioni politiche" oggi non servono più, arriva in compenso il cash (e non solo) della mafia insieme a ingenti quantità di droga che circolano sul set molto più di prima. I personaggi di Boris tornano a noi come unica vera resilienza: alle vecchie e grettissime abitudini non rinunciano, semplicemente, le declinano in modi più contemporanei. Anche solo per non essere troppo italiani, s'intende.
Nulla o quasi di ciò che vediamo in Boris 4 "si può" veramente dire o fare stando alle rigide norme che vigilano sulla virtù dell'intrattenimento rispettoso e corretto dei nostri giorni. Invece, scopriamo "scene fetish" nel Vangelo, un grande encomio all'uso delle armi possibilmente fin dall'età infantile (sì, è tornato anche il Mariano di Corrado Guzzanti), copiose otri di razzismo e omofobia patinate dalla solita, classica e confortevole incompetenza italiana. Tanto, l'importante è che ci sia la scena del dibattito sulla condizione femminile nella Palestina degli anni Trenta.
Boris è sempre stato, oltre che una cronaca puntuale di quanto accade davvero su ogni set televisivo, grande metafora della vita. Ossia di quel mare magnum di caos e assurdità in cui ognuno di noi naviga a vista cercando di schivare multiformi ostacoli: dalla "figlia de Mazinga" alla vision del capo fino alle trappole dei rapporti interpersonali tra colleghi. Molto positivi e attualissimi anche i nuovi innesti all'interno del cast che ci mostrano ragazzi dell'età di "Seppia" che oggi non si fanno più fregare dall'un tempo regola aurea "Ma che contratto? Ci vuole passione!". Armati di smartphone, follower e attitudine smart, i giovani aspiranti non sono stagisti ma veri e propri piraña di terra pronti a circuire, ingannare, ricattare perfino chiunque non porti loro il rispetto dovuto. E Lopez muto che manco davanti all'Ingegner Cane.
Questa quarta stagione è, in definitiva, una festosa rimpatriata con vecchi amici che ci mancavano da tanto, troppo tempo. Splendido ritrovarli carogne esattamente come li avevamo lasciati. C'è un amore per questa storia che trasuda da ogni dettaglio di sceneggiatura: non solo i personaggi principali e secondari, ma addirittura le comparse dell'epoca ritrovano posto nella ciurma del set. E fanno schifo tanto quanto prima. La qualità della serie, anche per questo, non si discute. Se l'algoritmo è un "flusso di dolore", Boris è la cura lì a ricordarci che "un'altra televisione è possibile" come sempre, nonostante i nuovi standard, la suscettibilità dei social, i balletti su TikTok. What a feeling, Fuoriclasse.