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Bang Bang Baby, recensione della serie Amazon: un capolavoro? Sì, ma anche di ruffianeria

Altissime erano le aspettative per la prima serie italiana prodotta da Prime Video. Bang Bang Baby le delude? Non proprio, diciamo che si affanna per accontentare tutti.
A cura di Grazia Sambruna
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“Un’altra televisione è possibile!”, gridava entusiasta il Renè Ferretti di Boris nel 2010. E di quella esclamazione era rimasta giusto l’eco. O poco di meno. Oltre un decennio più tardi, anno del Signore 2022, data 27 aprile, Prime Video rilascia i primi cinque episodi di Bang Bang Baby, serie annunciata come la bomba sganciata per rivoluzionare il mesto scenario dell’intrattenimento da binge-watching nostrano. Ebbene, missione compiuta? No. Ma bel tentativo. Ruffiana da morire, smaccatamente derivativa (solo, per fortuna, non da Un medico in famiglia), Bang Bang Baby piglia tutto quello che può pur di piacere e lo rielabora in salsa 80’s. Intendiamoci: per essere una serie italiana, è praticamente un miracolo. E allora come mai non stiamo esultando? Forse perché l'apparenza inganna e dietro all'osannato capolavoro, si intravede di puntata in puntata una spessa intelaiatura di cliché furbini per accontentare tutti. E quindi non emozionare (davvero) nessuno.

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Prendi un personaggio forte. E che sia femminile, ci mancherebbe. Ecco Alice (interpretata dalla bravissima Arianna Becheroni), la protagonista. Liceale nel 1986, la ragazza orfana di padre (ma forse no) non parla. Lei epitaffia. Ogni sua frase, fin dalla primissima puntata, potrebbe prendere il posto di “Resilienza” sugli avambracci di molti sciagurati che calcano il territorio nazionale. Mettile di fianco qualcuno, no, non una quattordicenne sovrappeso ma simpaticissima, tira su una creatura fluid, tipo Jimbo, BFF che, lo ribadiamo, nel 1986 si presenta in classe come se stesse partecipando a Drag Race Italia, sguaia, sculetta, ha sempre la feral battuta a doppio senso pronta e nessuno, o quasi, fa mai un plissé. Fossimo in Euphoria – e non lo siamo -, nulla da eccepire. Ma, oggettivamente, se l’Italia ancora prima degli anni Novanta fosse stata davvero così inclusiva, oggi non saremmo qui a scendere in piazza per questioni di diritti un giorno sì e l’altro pure. Senza aggiungere che cambiare il tipo di stereotipo non significa fare la rivoluzione in sceneggiatura. Che sempre pigra appare. Ed è coffee break, signori!

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Comunque, la storia è interessante: Alice, cresciuta a Milano con la mamma – ca va sans dire – femminista, scopre di appartenere, da parte di padre, a una delle più famigerate e potenti famiglie mafiose di Calabria. Persone squisite, per carità. Solo che insieme al caffè, quando gli fai visita, ti allungano un mitra perché pare buona creanza chiedere se vuoi favorire. Nonna Lina è la boss. Interpretata dall’incredibile Dora Romano, già Signora Gentile ne È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, qui siamo davanti a un altro personaggio potentissimo: sorridente, stoicamente composta e spietata allo stesso tempo, con una mano ti dà un buffetto sulla guancia, con l’altra, solo alzando il mignolino dietro la schiena, dà comando di far divorare un’infame dai maiali sulla roulotte di famiglia, quella delle vacanze al mare. Sovrana del traffico di eroina (e non solo), nonna Lina è ben inserita anche con la pulitissima Milano. Mani in pasta sugli appalti per l’aeroporto di Malpensa, gestisce l’ultima delle escort e il primo dei politici con lo stesso savoir faire. Lei la corruzione ce l’ha come soggetto sottinteso. Peccato solo le tocchi pure di dover gestire figli e nipoti irrimediabilmente maschi che, per una sgambatettata in più, si dimostrano puntualmente pronti a mandare in fumo trattative Stato-Mafia miliardarie. Non che sia poi un così grosso problema: nonna Lina sa sempre dove stanno i coltelli.

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Molte persone muoiono. Arse vive, crivellate di colpi, sbranate da animali vari, o più semplicemente a botte, quello che capita. Alice, neofita di questo mondo sotterraneo ma vivacissimo, muove i primi passi tra mignotte e sicari dimostrandosi fin da subito un talento naturale. E questa sua brillantezza non potrà che dare più di un grattacapo alla matriarca. Violenta, trucida e con una colonna sonora da 80 voglia di 80, questa prima serie (non docu) italiana di Prime Video parte col botto prendendo in prestito quel poco che nell’intrattenimento di casa nostra aveva avuto l’onore e l’onere di funzionare negli ultimi anni. In due parole? Gomorra e Lo chiamavano Jeeg Robot. Sì, è crossover. E risulta evidente anche solo guardando di sfuggita la color: i personaggi sono per la maggior parte del tempo tutti bluastri o giallognolo cangiante come fossero sotto la palla stroboscopica del locale dello Zingaro. Però con molte più armi.

Bang Bang Baby spara dall’alto di un’astronave Space X contro la serialità italiana rimasta a terra sul Pandino. C’entra l’obiettivo, ovvio. Ma per quanto ancora ci ritroveremo costretti a sdilinquirci perché una produzione pur essendo di casa nostra, finalmente, “non sembra una roba italiana”? Come se noi partissimo azzoppati, intellettivamente inferiori, privi di pollice opponibile, quando un titolo non ci mostra agiografie, dramedy a base corna e amorazzi cafoni, un ritratto della bella ma disfunzionale famiglia italiana (da poco disponibile anche a tinte queer), eccoci subito a gridare al capolavoro. Perciò va bene, Prime Video: “Thank you for being not so italian”. Per adesso questo rimane tuttora il miglior complimento che si possa fare a una serie italiana. Ad maiora.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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