Cammina come se stesse danzando goffamente sulle uova, vive nel sacro terrore di imbattersi in porte girevoli, ama le parole palindrome (come il suo nome) e soprattutto le balene. Potrebbe parlarne per ore. E lo fa. Che all'interlocutore di turno piacciano o meno capodogli e compagnia. Woo Young-woo è la giovane avvocata più brillante di Seoul, fresca di laurea col massimo dei voti presso l'università coreana di maggior prestigio nazionale, come dice la seconda pagina del suo curriculum vitae (terza riga), è nello spettro dell'autismo. Stralunata e impertinente, da bambina, dopo cinque anni di preoccupante e assoluto mutismo, ha cominciato a parlare recitando a memoria l'intero codice penale davanti alla faccia stupefatta del padre che, single, si premura da sempre di prepararle del sushi di cui lei possa vedere gli ingredienti e farle avere vestiti senza etichette (la infastidiscono). "Non mi considero un avvocato normale", dice nella prima puntata della serie Avvocata Woo (su Netflix dallo scorso giugno e perennemente tra i dieci titoli più visti della piattaforma al fianco di The Sandman e Stranger Things, nonostante non sia ancora disponibile doppiata in italiano). Cosa ha di così speciale questo bizzarro prodotto seriale? Prima di tutto, è irresistibile.
Intendiamoci: "irresistibile" in questo caso non è sinonimo di "semplice". La prima stagione di Avvocata Woo si compone di sedici puntate, ne è uscita una a settimana mentre annaspavamo nella calura estiva, e ogni episodio dura almeno un'ora. Antitesi del binge-watching, questa narrazione si prende tutto il tempo di cui ha bisogno per raccontare, nei dettagli, le avventure quotidiane della sua protagonista alle prese con il primo lavoro in un importante studio legale di Seoul. Il fatto che, per il momento, ancora manchi il doppiaggio italiano costituisce un altro elemento sfidante: Avvocata Woo si può seguire in lingua madre, in spagnolo oppure in portoghese. Non c'è nemmeno la scialuppa di salvataggio dell'audio inglese. Più o meno come accadde a settembre dello scorso anno per Squid Game. E questo non ha certo impedito alla serie di diventare il successo mondiale che tutti conosciamo. Sì, ma ne vale la pena?
Ogni episodio, a tutti gli effetti un piccolo film, vi porterà un diverso caso che Woo, insieme al team legale con cui lavora, in teoria da novellina, è chiamata a dibattere in aula cercando di convincere giudice e giuria della bontà dei propri clienti (e se stessa di potercela fare). Clienti che, di volta in volta, sono protagonisti di storie drammatiche o strampalate, le cui sentenze potrebbero condurli al gabbio o a risarcimenti milionari. Uno dei punti di forza della serie, oltre al carisma naïf della protagonista, è l'amore per il dettaglio con cui la sceneggiatura di ogni episodio è stata scritta. Se il paragone con Ally McBeal può apparire sensato, di certo qui i plot twist provengono dall'interpretazione del codice (civile o penale) più che dalle beghe personali dei protagonisti. Woo è un'avvocata e il suo lavoro è al centro della narrazione. Insieme alle balene che, non scherziamo, si riveleranno affidabilissime alleate per la risoluzione dei casi. Come anche ottime compagne di viaggio sul treno verso l'ufficio. No spoiler.
Se l'avvocata mainstream in questo momento è Jennifer Walters (la She-Hulk dell'omonima serie Marvel su Disney Plus), qui siamo in tutt'altro campionato. Woo lavora, schiva qualsiasi possibile interesse sentimentale (fino a quando?) anche perché non riconosce le emozioni umane e alterna momenti di alienazione a intuizioni geniali che, inevitabilmente, svoltano la puntata. Impossibile, però, veder arrivare il colpo di scena, spesso più di uno, prima che ci venga disvelato. Dopo aver pigiato play, ci si ritrova in balia della narrazione, con molte ipotesi nella testa lungo la via e un finale sempre pronto a sbatterci in faccia quanto fossimo fuori strada.
Dopo Squid Game la Corea del Sud fa di nuovo centro, stavolta senza sangue e violenza ma con una storia che si fa amare per come è, pretendendo la soglia d'attenzione che merita ogni racconto che vale la pena di essere narrato. Come in Atypical (Netflix), l'autismo della protagonista impatta sulla sua vita di tutti i giorni, procurandole lampi di genio ma anche una serie di problemi pratici che non si risolvono in semplici siparietti "comici". Qualsiasi cosa ti renda differente non è di per sé un ostacolo, ma può essere una risorsa, un punto a suo modo privilegiato da cui guardare il mondo, arrivando a conclusioni alle volte sghembe, altre brillanti. Nonostante la versione locale de La Casa di Carta che, in ogni caso, aveva dimostrato una netta superiorità delle produzioni coreane in fatto di regia e recitazione, da Seoul arrivano finalmente progetti originali inediti senza la museruola delle esigenze di marketing. E non è la prima volta.
La serie di grandissimo successo Good Doctor (2017) è il remake statunitense dell'originale 굿 닥터, Gut dakteo, trasmesso qui in Italia inizialmente su Rai 2 e oggi disponibile in streaming sempre su Netflix. Anche la tv generalista non resiste al fascino coreano: prova ne sia pure lo show Il Cantante Mascherato, nato dalla mente di Park Won-woo, l'uomo che negli ultimi anni ha preso il posto di Simon Cowell (papà di X Factor e Got Talent) come creator di format più prolifico in assoluto. La Corea è saldamente sul trono dell'intrattenimento, seriale ma non solo, a livello mondiale. E se lo merita. Anche per (o nonostante) il fenomeno di massa della musica K-Pop.