Avevamo bisogno di un live action di One Piece?
One Piece non è solo il manga più venduto al mondo. È un fenomeno, un brand, un punto di ritrovo, di carta e inchiostro, per appassionati di qualunque età e provenienza. A qualcuno, e lo sappiamo, questa frase suonerà banale, probabilmente retorica; e per carità: lo è. Ma certe opere, come One Piece, finiscono per superare i limiti del tempo, per infilarsi in anfratti dove poche altre cose riescono ad arrivare e per imporsi all’attenzione generale come dei capolavori. Veri o presunti non importa; importa la percezione che ne abbiamo. E ce l’abbiamo nonostante tutto. Ce l’abbiamo anche se non sono ancora stati finiti. Anche se gli errori si contano a decine, e anche se, in diversi paesi, resiste un pregiudizio profondo nei confronti del fumetto.
One Piece è una storia universale
One Piece è una storia che parla a chiunque, e che è stata in grado, nel tempo, di ritagliarsi un posto al sole fortunato, accanto ad altri titoli come Dragon Ball. Eiichirō Oda, l’autore, ha visto cose che altri, prima e dopo di lui, hanno solo immaginato. Ha dato vita a un universo narrativo pieno di pirati e frutti del diavolo, di tesori e avventure. E in mezzo all’azione ha infilato la politica, il razzismo, la stretta attualità. È riuscito a parlare di libertà e rivoluzione, di nazionalismi e indipendenza. L’ha fatto a modo suo, senza tradire sé stesso e la sua storia. Ed è per questo motivo – anche per questo motivo, in realtà – che è stato in grado di arrivare dove si trova oggi. Da qui la domanda: era necessario fare una serie live action di One Piece? Il manga, pubblicato in Italia da Star Comics, e l’anime, disponibile su Crunchyroll, non erano sufficienti?
La complessità di un adattamento in live action
Ecco, siamo alla prima domanda e ci confrontiamo già con la prima difficoltà. Perché non c’è una risposta netta. One Piece poteva rimanere quello che conosciamo, fatto di vignette oppure di animazione. Ma un live action non è un’operazione che va contestata – e contrastata – a prescindere. Va valutato caso per caso, quindi sì: dipende. Innanzitutto da quelle che sono le intenzioni degli sviluppatori. Perché stanno facendo quello che stanno facendo. Che cosa vogliono ottenere. A chi si vogliono rivolgere.
Nel corso di otto puntate, disponibili su Netflix, questa serie sembra essere indecisa su che strada prendere. All’inizio, proprio nel primo episodio, è evidente l’intenzione degli sceneggiatori, capitanati da Matt Owens e Steven Maeda, di non fermarsi alla storia raccontata nei primi volumi del manga e di andare oltre. E di unire anche eventi futuri, di rileggere determinati passaggi e di cambiarli. A volte leggermente; altre, invece, in modo drastico. Su questo è fondamentale fare un passo indietro. Perché non stiamo parlando solo del live action di One Piece, qui. Ma dell’essenza stessa di un adattamento.
Portare una storia pensata – per esempio – come fumetto in – per esempio – televisione non è un’operazione lineare. Anzi. È complicato. Spesso, quasi impossibile. Perché serve tenere conto di diversi fattori, come le risorse e il budget; e pure di quelle regole basilari che permettono di distinguere un medium – parola bruttissima, lo sappiamo – da un altro. One Piece, il manga, funziona. E funziona in tutte le sue parti. Anche negli archi più lunghi e annacquati, anche quando Oda si lascia andare a spiegazioni minuziose e a flashback che sembrano non avere mai fine. Fa parte della sua natura. La carta, di per sé, non ha nessun vero limite. Sulla carta, può succedere qualunque cosa. In un live action no. E non solo per una questione di costi – quelli c’entrano, e vanno tenuti sempre presenti. Ma pure, ed ecco il punto fondamentale, per una questione di coerenza narrativa. Quello che vediamo deve avere un senso. E non rispetto alla realtà che ci circonda, attenzione: rispetto all’andamento stesso del racconto.
Quindi, tornando al live action di One Piece: quando diciamo che “sembra essere indeciso su che strada prendere”, ci riferiamo esattamente a questo. In alcune scene punta in una direzione, in altre, all’improvviso, si concentra sul materiale originale provando a riprenderlo uno a uno, fedelmente, tratto per tratto. E dunque l’effetto finale, da un punto di vista puramente narrativo, è questo: due serie in una; un racconto che cerca di essere indipendente, con una sua linearità e una sua struttura, e un altro, che si fa vedere quasi senza nessun preavviso, che cerca di imitare – peggio, di scimmiottare – i toni del manga e dell’anime. E per carità: questa cosa – l’estrema ed esasperata fedeltà al materiale originale – farà felice qualche fan. Televisivamente, però, l’impatto che può avere è abbastanza alienante. Possiamo lasciarci andare e divertirci, sì. Ma non è facile ignorare certi cambi di marcia improvvisi e – nel contesto del racconto – ridicoli. Anche la regia, in questo senso, mostra tutta la sua limitatezza.
La decisione di usare così tanti close-up, riprese di particolari e inquadrature grandangolari è un modo palese per riprendere la regia del fumetto e dell’anime. In un live action, però, l’effetto che si ottiene non è dei migliori. Perché così lo spettatore perde buona parte della scena, non può vedere quello che succede, per esempio, accanto a un personaggio; e soprattutto, produttivamente, non possono essere valorizzati i set che, com’è stato ripetuto in continuazione in questi mesi, sono stati costruiti da zero.
Le cose migliori: gli attori e il cast produttivo
I registi coinvolti in questa serie sono quattro: Marc Jobst, Emma Sullivan, Tim Southam e Josef Wladyka. Ognuno di loro ha diretto due episodi, e se all’inizio quelli di Jobst sono più lineari e facili da seguire, verso la fine quelli diretti da Wladyka si riempiono di citazioni e riferimenti e la natura stessa della serie live action, come prodotto indipendente, viene messa in discussione. In questo modo diventa difficile anche per gli attori costruire i loro personaggi. Lo diciamo subito: i protagonisti, alla fine, ci riescono. È impossibile non apprezzarne l’entusiasmo e la convinzione. Ed è altrettanto impossibile non riconoscere la loro disponibilità in qualunque scena e situazione – anche quelle più assurde. Per alcuni, come Jeff Ward che interpreta Buggy il Clown, è decisamente più immediato. Lo vediamo e subito ci crediamo. A lui, al personaggio, al contesto stesso in cui ci viene presentato. È feroce, irriverente e senza scrupoli. Ride, e la sua risata è piena, travolgente, vera. Il trucco, nel suo caso, funziona. Proprio perché incarna in modo preciso le sue contraddizioni.
Poi ci sono gli attori principali: Iñaki Godoy, che interpreta Luffy; Mackenyu che interpreta Roronoa Zoro, Emily Rudd che interpreta Nami, Jacob Romero Gibson che interpreta Usopp, e Taz Skylar che interpreta Sanji. Ecco, se Godoy trova la sua dimensione quasi naturalmente, per i suoi colleghi diventa – non più complicato, ma – più graduale. Il primo che ci riesce è Mackenyu: il suo Zoro è il personaggio che più di tutti, nel live action, trova un suo spazio, non alternativo rispetto al manga ma complementare. Il Sanji di Skylar è altrettanto credibile e ben caratterizzato. E infine, ago della bilancia, c’è la Nami di Rudd: che fa da collante all’interno del gruppo.
Il cast, e lo ripetiamo, è sicuramente la cosa migliore di tutto il live action. Perché riesce a convivere sia con la necessità di rifarsi a personaggi già conosciuti sia con il bisogno personale di non limitarsi, diciamo così, a imitare. One Piece racconta la storia di Luffy, che vuole diventare il Re dei Pirati e trovare il tesoro più grande di tutti. E da questo nucleo narrativo, poi, partono le trame verticali che riguardano gli altri membri della sua ciurma: da Zoro che vuole essere lo spadaccino più forte del mondo a Sanji che vuole trovare l’All Blue, il luogo dove tutti i mari convergono e si può trovare qualunque pesce.
Sull’altro piatto della bilancia, come elementi più negativi, ci sono sicuramente l’effettistica e i costumi. Che sono fedeli, chi dice di no. Ma anche troppo rigidi, puliti e finti. Non sembrano vissuti, e il mondo di One Piece è un mondo di pirati, pieno di persone povere che vivono di stenti. Sudate, affamate e sporche. Gli stessi pirati passano la maggior parte del loro tempo in mare: dove sono le camicie ingiallite dal sudore e dalla salsedine, i pantaloni rattoppati e le scarpe rovinate? Torniamo a quello che dicevamo all’inizio: è indispensabile, quando si fa un live action, trovare un equilibrio. Capire che, in una serie dal vivo, la credibilità visiva non può essere superata dal dogma della finzione. Le due cose devono coesistere, essere dosate con accortezza e senza esagerare.
Sull’effettistica il discorso è ulteriormente diverso. In alcune scene è evidente l’investimento di risorse. In altre, però, è altrettanto evidente il poco tempo a disposizione per poter migliorare la resa finale. Sia nell’anime che nel manga certe sequenze sono state semplificate per limitare al massimo il numero di frame da disegnare e, poi, per valorizzare la sintesi del linguaggio. Nel live action, paradossalmente, si preferisce un didascalismo che, nell’economia del racconto, ha l’effetto contrario: quello che vediamo è brutto, respingente, inutile. E non stiamo parlando dei dettagli o di particolari mostri marini, visti anche nel trailer ufficiale. No. Parliamo d’intere sequenze d’azione. E questo ci permette di affrontare un altro tema. I poteri.
In One Piece, molti dei protagonisti hanno abilità uniche, date dai cosiddetti frutti del diavolo, frutti straordinari e rari. Luffy, per esempio, è fatto di gomma. E quindi: può allungarsi, resistere agli urti, incassare i colpi; far rimbalzare sul proprio corpo palle di cannone e proiettili. È necessario, dunque, non solo non ignorare questo aspetto ma dargli anche un suo peso e una sua concretezza all’interno della storia. Anche qui: bisogna trovare un bilanciamento, un equilibrio. Tra ciò che va obbligatoriamente mostrato, perché indispensabile ai fini della chiarezza e della caratterizzazione, e quello, invece, che si può eliminare. Nemmeno in questo caso le scelte che vengono prese sono le scelte più giuste – ci riferiamo nuovamente alla totalità del progetto e dell’operazione e alla sua coerenza.
La colonna sonora di Sonya Belousova e Giona Ostinelli è poco incisiva. L’unico picco musicale è rappresentato dal brano composto per Nami, verso la fine della serie. Ma per il resto del tempo i brani e le tracce che sentiamo sono ripetizioni e riarrangiamenti poco originali della stessa cosa. Peccato davvero. E peccato anche per la fotografia, firmata da Trevor Michael Brown, Michael Swan, Nicole Hirsch Whitaker e Michael Wood, che avvolge ogni cosa negli stessi colori, che usa la luce pigramente e che solo nel secondo episodio, per un momento, riesce a offrire alla narrazione un sostegno effettivo. Graficamente, invece, ci sono delle soluzioni interessanti quando si tratta dei titoli di testa, che cambiano nel corso delle puntate, e in quelli di coda, dove il disegno si unisce a elaborazioni digitali.
Il lavoro sulla trama
Il lavoro che è stato fatto sulla trama è un lavoro intelligente, che non si ferma alla letteralità della storia raccontata nel manga o nell’anime e che prova a raccogliere insieme parti differenti per raggiungere una nuova forma. Per intenderci: eventi che vengono accennati solo più avanti nel manga qui vengono ripresi e messi in scena immediatamente, nel primo episodio. E anche con una certa consapevolezza. Il problema, se di problema vogliamo parlare, è l’insistenza nel voler dare ai fan quello che i fan si aspettano (o che, molto più probabilmente, Oda, produttori e sceneggiatori credono che vogliano vedere): le citazioni. I riferimenti. Le scene che sono identiche – registicamente, come colori, impostazioni e personaggi – al manga e all’anime. Di nuovo, in una serie live action questa cosa non può funzionare. O meglio: non è detto che funzionerà. Ed è un rischio che ha senso correre una volta, per un momento particolarmente iconico, ma che non si può ripetere, sempre uguale, in quasi tutti gli episodi. (Piccola nota: Oda ha seguito da vicino lo sviluppo di questa serie, e lo sappiamo; è probabile, perciò, che ci siano più piani di lettura per le varie situazioni, non solo i più ovvi. In particolare, è probabile che determinati poteri e determinati atteggiamenti che vengono mostrati siano un’anticipazione di quello che – forse, chi lo sa – succederà in futuro nel manga).
Molti, parlando di questo live action, ci hanno tenuto a ribadire che no, non è come quello di Cowboy Bebop. Certo: sono due storie diverse; soprattutto, sono due storie nate in momenti differenti. E anche il pubblico di riferimento – quello, cioè, che ha criticato l’operazione di Cowboy Bebop – è un altro. No, nel caso di One Piece non possiamo cadere nella trappola del: è meglio di così perché poteva andare peggio. Non possiamo accontentarci. Dobbiamo avere la presenza critica di valutare questo prodotto per quello che è, preso singolarmente. E dobbiamo farlo senza abbandonarci a banalità e tifoserie.
La aspettative troppo alte
C’erano grandi, grandissime aspettative su questo live action. Perché, con il peso di un servizio streaming come Netflix e di un brand come quello di One Piece, poteva letteralmente cambiare gli equilibri del mercato dell’audiovisivo e dimostrare la bontà che certe storie, anche più assurde e fantastiche, hanno. Il risultato finale non è certamente ai livelli del manga, e non si avvicina nemmeno alla resa visiva dell’anime (è normale, ci teniamo a dirlo: sono linguaggi diversi).
Per qualcuno sarà bello rivedere i personaggi che ama e ha amato in carne e ossa: non lo mettiamo in dubbio. E non mettiamo in dubbio nemmeno che per qualcun altro rivedere quella particolare sequenza, così iconica e importante nel manga, ripresa passo per passo, sarà una gioia. Ma come live action e come adattamento questa serie non cambia assolutamente niente. Non è pessima e nemmeno brutta: è, però, del tutto ignorabile. È un più, un’aggiunta, un contenuto extra, un bonus, per gli appassionati. Nient’altro. E per carità: può andare bene anche così, ma la sensazione è quella di un’occasione mancata. E One Piece, come storia, come brand e come universo narrativo, meritava decisamente di più.