Adolescence, la recensione: la serie tv che può salvare genitori e figli

Adolescence parla di padri e figli. E di come le colpe dei padri (sineddoche di famiglia) ricadano sui figli. Non per scomodare la letteratura greca o la psicoanalisi spicciola, ma scrivere di questa miniserie tv significa raccontare un mondo in cui gli adulti sono degli incapaci e dove il web può trasformarsi in una rete che intrappola anche i più impensabili dei ragazzini. I quattro episodi disponibili su Netflix raccontano la storia del tredicenne Jamie Miller, arrestato per aver ucciso Katie, coetanea che frequenta la sua stessa scuola. Le scene iniziali mostrano proprio il momento in cui il ragazzo viene strappato al suo letto e portato nella centrale di polizia, tra la rabbia e lo shock dei genitori e dello spettatore stesso. Impossibile non indignarsi per quello che non può essere altro che un clamoroso errore giudiziale. Non sarà così. Minuto dopo minuto ci si rende conto che dietro quel timido adolescente indifeso si nasconde la rabbia, l'ingiustizia e la colpevolezza. Interessante come la serie non abbia intenzione di dare una spiegazione "razionale" ai suoi gesti, una scelta che viene annunciata proprio dalla detective Misha Frank: "Non riusciremo mai a capire perché".

L'unica cosa che si può comprendere è il senso di colpa dei genitori, che pervade ogni piano sequenza, ogni inquadratura. È soprattutto il padre che si tormenta chiedendosi dove abbia sbagliato, se l'errore sia stato forzarlo a giocare a calcio (questione menzionata anche da Jamie) o la mancata supervisione. "I ragazzini sono così al giorno d'oggi, non puoi mai sapere cosa fanno in camera. (…) Come quel tipo che mi è apparso sul telefono, diceva come trattare le donne, che gli uomini devono essere uomini (…) Non puoi controllarli tutto il tempo" dice a sé stesso. Tra le tematiche principali, non solo il bullismo, ma anche la denuncia di una dimensione web che diventa terreno fertile per istigazione alla violenza e propaganda di una cultura misogina e maschilista. Il punto cruciale, però, è anche un altro: gli adulti non sono in grado né di cogliere i campanelli d’allarme, né di tradurre un linguaggio online che non vogliono o non sanno capire. Una piccola speranza è nella figura del poliziotto protagonista, che segnato dalle indagini sull'omicidio, capisce che è il momento di essere più presente con il figlio. Basterà?

Se si dovesse menzionare un solo buon motivo per guardare questa serie, sarebbe per la terza puntata. Il confronto tra la psicologa del tribunale e il giovane Jamie racchiude tutta l'essenza dell'opera. A dire il vero, una frase in particolare. A pronunciarla è il ragazzo: "Ti sei spaventata quando ho urlato? Sono un bambino di tredici anni, non credo di essere terrificante". E invece lo è. Spaventoso scoprire cosa si nasconde dietro quel volto, che non è solo quello di Jamie, ma di tanti uomini che non sanno gestire le emozioni, prigionieri di una visione distorta delle relazioni e del mondo. Un riflesso di quello che scegliamo di ignorare, o peggio ancora, giustificare.