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Vincenzo Salemme: “In Italia si disprezza la comicità di successo. Zalone il più bravo di tutti”

L’attore si racconta in un’intervista a Fanpage.it. Dall’enorme successo del suo teatro dal vivo in Tv con “Napoletano? E famme na pizza”, la critica non sempre generosa con lui: “L’amico del cuore ebbe un riscontro enorme, ma scrissero cose allucinanti”. Poi i ricordi del passato, dai fallimenti formativi al distacco da Buccirosso, Casagrande e Paone: “Attori eccezionali, poi ognuno cerca un suo percorso”.
A cura di Andrea Parrella
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Nel 2023 il teatro in televisione può apparire una sfida, figurarsi proporlo in diretta. Sono due forme di preconcetto che a quanto pare non hanno scalfito Vincenzo Salemme, che in carriera si è misurato con le principali forme espressive, dal cinema alla televisione, per arrivare a focalizzarsi sull'intenzione di fondere il teatro e il piccolo schermo. Lo spettacolo "Napoletano? E famme ‘na pizza" ha sancito il suo ritorno su Rai2 con questa formula, registrando uno degli ascolti più alti della rete in questa stagione. Salemme si racconta in questa intervista a Fanpage.it che è anche l'occasione per ripercorrere le traiettorie tracciate in passato in carriera, gli incontri determinanti, il rapporto con quella comicità che è spesso una dannazione.

Salemme, diciamolo subito, il teatro in Tv è pratica desueta, la sua ostinazione a farlo, per giunta in diretta, è una prova di abilità, o per lei non può esistere altra idea di teatro?

Più che pratica desueta direi che non lo fa nessuno. Non è che voglia tirarmela, io penso che se l'errore capita piace anche al pubblico. Poi sono dell'idea che l'essenza di questa arte sia sparire nell'istante in cui viene creata.

Accade in quel momento e poi mai più.

Le commedie uno può riguardarle, ma il bello è che quella sera sei andato al teatro e sei il solo ad avere visto quella mosca volare: quella sera c'è, ma non esiste più. Mò uno che legge questa cosa dice che Salemme vuole fare il filosofo, però io ho maturato questa convinzione negli anni e credo dovremmo farlo tutti, è ciò rende bello e affascinante il teatro, la sensazione di vedere qualcosa che non vedrà mai più nessuno. Proviamo, per quanto possibile, a riprodurre questa atmosfera in Tv.

"Napoletano? E famme ‘na pizza" è uno spettacolo in cui si racconta l'esasperazione di stereotipi e luoghi comuni. Non crede però che siano gli stessi napoletani, spesso, a crogiolarsi nella loro retorica?

Lo penso assolutamente e lo dico esplicitamente. Siamo noi stessi a farci prigionieri, a sentirci in dovere di fare i napoletani, io stesso mi rendo conto di prestare spesso attenzione a come parlo di Napoli per non ferirla. A inizio spettacolo racconto un fatto vero, il furto del telefono subito qualche anno in un'altra città. Un amico mi disse: "ma come, ti fai rubare il cellulare, e che napoletano sei?". Come se essere napoletano significasse saper sventare o evitare furti.

Quale clichè la infastidisce di più?

Questo mito della nostra astuzia, una astuzia senza luce. È una forma di razzismo che ci auto infliggiamo da soli. Poi mi urta il racconto che si fa di noi e che contribuiamo a generare. Qualsiasi città, da Aosta alla punta della Sicilia, che si avvicina a una gioia sportiva come quella che potrebbe vivere Napoli quest'anno con lo scudetto, non sarebbe oggetto di questo racconto eccessivo, fatto con quel sorriso come fossimo il parente povero che ce la fa. A me non piace. Vorrei che anche la vittoria eventuale fosse un fatto normale. Vorrei che fossimo raccontati meno.

"Comico napoletano", dice che la presentano spesso così e la infastidisce che etichettino queste origini che, d'altronde, lei non ha mai nascosto.

Io sono di Bacoli, ma in ogni caso non sono mai fuggito dalle mie origini partenopee. Però perché specificarle? Perché il pubblico si aspetta da te che tu faccia il napoletano. Se un toscano dice che gli piace la carbonara, finisce lì. Lo dice un napoletano e la gente si incazza, ma come la carbonara? Uno spaghetto aglio e olio no? Napoletano non è solo una cittadinanza, ma anche un programma, se lo sei devi essere in un certo modo. Una cosa divertente, però quando genera aspettative può diventare un limite e una frustrazione.

Da "Napoletano... e famme 'na pizza", foto di Federico Riva
Da "Napoletano… e famme ‘na pizza", foto di Federico Riva

È sempre stato capocomico. È un'attitudine che ha scoperto col teatro, o è sempre stato uno che voleva stare in prima fila?

Da ragazzino, già a 14 anni volevo organizzare cose di Plauto a scuola, con i miei amici di Bacoli a cui non fregava niente. Ero spesso il leader del gruppo quando si trattava di ‘inciarmare' una cosa ludica e credo di essere abbastanza portato a fare gruppo. Mi piace creare l'idea ed è per questo che mi piace la regia.

Più che recitare? Si vede anche fuori dal palco?

Mi piacerebbe fare solo regia, ma è difficile immaginare uno spettacolo in cui ci sia il mio nome e io non sia sul palco. Si rischia di deludere il pubblico, come se ci si fosse spesi di meno, anche se non è così.

Il capo si prende meriti e demeriti. Ricorda un suo fallimento in carriera?

Fallimentare in maniera totale no, nel senso che credo non esista nulla di così fallimentare da non essere utile a qualcosa, vale per i successi come per gli errori. Però mi viene in mente la mia esperienza con il varietà in Tv. Il primo, Famiglia Salemme Show del 2006, fu un fatto molto carino, che riscosse successo e mi diede soddisfazione. Qualche anno dopo, nel 2009, proposi un'altra trasmissione, Da nord a sud, che non ebbe un buon risultato e fu giusto: non se lo meritava.

Col teatro invece?

Con il teatro mi è capitato di fare una regia de ‘La vedova allegra' al Teatro dell'Opera di Roma, secondo me una cosa divertente, ma fui distrutto dalla critica e dagli intenditori. Mettere le mani in qualcosa come l'opera non mi fu perdonato, offese la suscettibilità di un po' di persone. Ma non il pubblico, che a Roma e Salerno fu molto numeroso.

Foto di Federico Riva
Foto di Federico Riva

La comicità è una sorta di condanna. De Sica di recente l'ha paragonata al cow boy al cinema, quello che finisce per salire e scendere da cavallo per tutta la vita. 

Io non so in quanti paesi del mondo esista questa demarcazione così netta tra comico e serio, è una cosa che non ho mai capito, non so cosa vuol dire perché nella risata c'è tanto dramma, come ridere a un funerale. Può esistere il genere, la commedia, la farsa, il dramma, l'opera, ma dividere le cose per sentimenti emotivi è una follia, un controsenso. Se uno ha fatto una cosa fatta benissimo, da morire dal ridere, non merita un premio?

In Italia c'è un'intellighenzia che rifiuta la comicità come forma espressiva nobile?

C'è una tendenza a premiare e riconoscere cose ritenute più intelligenti di altre, cosa che ritengo discriminatoria, perché non penso esista una risata stupida e un'altra colta. C'è disprezzo per un certo modo di ridere e lo trovo incomprensibile, anche perché spesso è quello di maggior successo. Che poi diciamo intellighenzia, ma non si capisce mai di chi si sta parlando.

L'amico del cuore, il suo primo film. Anche quello divise pubblico e critica?

Fu un successo incredibile, un'accoglienza da parte del pubblico che francamente non avrei immaginato, ma io mi ricordo ancora quello che fu scritto al tempo, cose allucinanti, soprattutto se rapportate al responso del pubblico.

La sua ultima fatica da regista risale al 2021. Pensa ancora ai film, oppure oggi non vale più la pena cimentarsi?

Questa è una riflessione più grande di me. A me piacerebbe fare film, che valga la pena o meno farne è una cosa che decide solo la gente. Al momento vedo che quelli che vanno davvero bene come un tempo sono i grandi film stranieri, gli italiani si difendono ma le cifre di un tempo non esistono più. Sull'aspetto economico non posso parlare perché non sono un produttore, in termini artistici bisognerebbe capire quali siano le possibilità della commedia, quanto ancora riesca a incidere. È una cosa delicata.

Qualcuno che la fa bene?

Zalone è il più bravo, distrugge tutte le regole, lo riconosci, è lui. Forse ogni artista dovrebbe badare alla propria riconoscibilità.

Dal 1998 molti hanno considerato volti come Buccirosso, Casagrande e Paone delle presenze imprescindibili nei suoi lavori, poi la separazione.

Diciamo che sono più di vent'anni che non lavoriamo più insieme, ci siamo rivisti in diverse occasioni, ma il pubblico a teatro c'è e non mi pare abbia risentito dei cambiamenti.

Il distacco è stato naturale, o anche una sorta di reazione a questo apparentamento forzato?

Le prime cose restano naturalmente impresse, anche perché loro erano eccezionali, attori bravissimi. Il distacco è stato naturale, hanno ritenuto opportuno cercare un proprio percorso che, legittimamente, ognuno ha esigenza di fare.

Herzigova, Salemme, Buccirosso e Casagrande ne "L'amico del cuore"
Herzigova, Salemme, Buccirosso e Casagrande ne "L'amico del cuore"

Col suo primo stipendio ho letto che comprò un mazzo di orchidee a Monica Vitti. È una cosa che rivendica?

In quell'atto unico che si chiamava Il Cilindro, Monica Vitti aveva come costume di scena un sottanino con calze nere e reggicalze, a me piaceva moltissimo, a vent'anni era per me una donna meravigliosa, ascev' pazz'. In un momento di pausa andai a sedere su una panca, che era in una zona buia dello studio. Lei andò verso il buio per aggiustarsi un bottoncino del reggicalze, facendo un gesto senza sapere che io la vedessi. Mi si fermò il cuore vedendola, lei non l'ha mai saputo, il giorno dopo mi sentivo in debito e decisi di farle questo omaggio.

Sembra la scena di un film.

È vero, quasi quasi ci penso.

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