Vincenzo Comunale, il nuovo Zelig che avanza: “Provo a far ridere senza prendermi sul serio”
Il ritorno di Zelig un anno fa è stato forse tra i più fortunati esempi di Tv revival. Il programma, dopo anni di stop, è tornato su Canale 5 riscuotendo un grande successo grazie al ritorno di conduttori e nomi storici, ma anche all'inserimento di nuovi volti che hanno conquistato subito l'attenzione del pubblico. Tra questi c'è Vincenzo Comunale, comico napoletano che dall'eruzione del Vesuvio alla statalizzazione della camorra ha proposto sul palco di Zelig monologhi in grado di andare oltre la semplice prospettiva del riferimento opportunistico a temi di facile appeal, rileggendoli in una chiave interessante. Alla vigilia dell'ultima puntata della stagione di Zelig, abbiamo parlato con lui per farci raccontare questa esperienza.
Ti sei imposto come la nuova guardia di un titolo televisivo storico. Che sensazioni ti ha dato stare in un meccanismo così radicato?
Sembrerà retorica ma è stata un'emozione enorme. Zelig è tra le cose responsabili del lavoro che ho scelto, lo guardavo in Tv da bambino ed è stato molto emozionante trovarmi a stare in camerino con quei comici che ammiravo in Tv. Il mio sogno, per molto tempo, è stato fare su quel palco il monologhista, ruolo che ha sempre avuto spazi più centellinati. Aver raggiunto il palco dell'Arcimboldi è stato motivo di grande orgoglio.
Parliamo appunto di codici comici. Sei il simbolo di come Zelig abbia tentato e sia riuscito ad accogliere la stand up comedy, che negli ultimi anni ha spinto la comicità italiana oltre i suoi confini tradizionali. Ti sei sentito uno straniero?
Sì e no. Questa percezione di estraneità ce l'ho sempre, in qualsiasi ambiente in cui vada. So che a livello di marketing non è un granché, ma mi reputo un ibrido tra varie forme. Quella a me più vicina è la stand up comedy, ma mi piace definire quello che faccio sul palco come comicità e basta, offrire il mio punto di vista, la mia storia. Sicuramente mi rendo conto sia molto diverso da quelle tipologie di comicità che Zelig ha storicamente accolto in maniera maggiore, come il personaggio e il tormentone, che comunque è un'idea già lontana da quello che è lo Zelig degli ultimi anni. La stessa estraneità mi capita quando partecipo ad eventi di stand up più ristretti e, provenendo da un contesto nazional popolare, avverto una simile percezione. Diciamo che mi sento fuori luogo ovunque.
Però questo ti svincola dalla necessita di adattare quello che fai al contesto. È un vantaggio?
Sì, in fondo sono figlio di entrambe le cose. Per ragioni anagrafiche, ho 26 anni, sono un po' la fusione delle influenze degli stand up comedian anglosassoni che ci sono arrivato con Youtube e il mainstream televisivo che vedeva in Zelig la sua massima espressione. Lo ritengo un valore aggiunto e non un limite, perché mi fa sentire naturale in entrambi i contesti.
La stand up è stata per molto tempo ritenuta inadatta alla Tv generalista, oggi non sembra così. È cambiato il pubblico, o i comedian?
Credo tutte e due le cose, l'evoluzione mi pare sia avvenuta di pari passo. Le nuove generazioni si sono formate su gusti comici nuovi rispetto alla nostra tradizione, la sensibilità e le esigenze si sono affinate, nuova domanda e offerta si sono alimentate a vicenda. Al contempo gli stand up comedians vanno in Tv e non sempre fanno stand up, ma quello che il format televisivo richiede. Vengono chiamati a LOL e altri format, o vanno per l'appunto a Zelig. L'evoluzione, inevitabilmente, sta in questa commistione di generi, nel non vedere più la stand up come qualcosa di strano. Anche perché è sempre esistita in Italia, come si dice sempre la tradizione di Paolo Rossi e Beppe Grillo c'era già.
Il dibattito su cosa sia o meno stand up comedy negli ultimi anni c'è stato, con tanto di scontro tra puristi e non. Tu da che parte stavi?
Lo stai chiedendo a una persona che non ha mai deciso. È una questione molto dibattuta, come tutti i dibattiti con i suoi aspetti di futilità, perché è il gusto del pubblico che decide. Però all'inizio, e per inizio intendo quando in Italia nacque Satiriasi, c'era una giusta necessità di doversi distinguere a livello di immagine e comunicazione. C'era chiarezza verso il pubblico nell'invito a una serata comica in cui non avrebbero visto uno vestito da salumiere che faceva il personaggio del salumiere, ma uno con un nome e cognome che dà il suo punto di vista su un argomento, con un linguaggio per lo più senza censure. Un discorso che ha avuto un suo tempo di respiro e anche la sua deriva, visto che oggi succede spesso il paradosso di cavalcare una tendenza e promuovere serate di stand up comedy in cui c'è tutto fuorché stand up.
Tu quando ti presenti dici di essere uno stand up comedian?
La mia ambizione è che la gente venga a vedere Vincenzo Comunale, senza un'etichetta, indipendentemente che abbia un archetto o il microfono con il filo. È così che succede all'estero.
Però le differenze ci sono.
Certo che ci sono. La verità, l'onestà e il punto di vista sono cose principali, insieme all'importanza del sottotesto, che magari una comicità di intrattenimento puro può non avere. Non c'è una differenza in termini di dignità, alto o basso, sono solo cose diverse. Il pubblico percepisce queste differenza, ma non sta nemmeno troppo a chiedersi di questi dettagli. Più che altro è un dibattito tra addetti ai lavori, che è importante ma fino a un certo punto.
A Zelig hai portato un pezzo che espone, come paradosso, la teoria di statalizzare la camorra per sconfiggerla. Lo hai presentato sui social come un pezzo di satira. C'è ancora spazio per la satira in Italia?
Secondo me la satira non è mai morta. C'è semmai una sorta di assuefazione e stagnazione da parte degli stessi comici. Io non credo molto nella satira politica dichiarata. Fare l'imitazione di un politico o sul politico è, in questo momento, poco efficace. Più utile è prendere di mira l'elettorato e non l'eletto, le nuove potenze di questa società che non sono le autorità. Il gioco della satira degli ultimi anni è sempre stato quello di rendere poco autorevoli le autorità, sbagliando però obiettivo, perché in realtà i politici hanno superato la comicità e la fantasia. Spesso guardo Crozza che fa De Luca e mi rendo conto che il personaggio vero è più comico dell'imitazione. E non per demeriti di De Luca. Salvini che si fa fotografare in costume rende inefficace quella satira che per anni ha ritratto i politici in giacca e cravatta in costumi a loro difficilmente accostabili.
E quindi chi sono i nuovi potenti da prendere di mira?
I potenti in questo momento sono quelli con milioni di follower, Cristiano Ronaldo, Fedez e Ferragni. Non loro nello specifico, ma tutte quelle persone che sono in grado di influenzare. Loro potrebbero essere i nuovi obiettivi della satira, che deve stare dalla parte dei più deboli per esistere e sottolineare incoerenze e ingiustizie.
Qual è il tuo metodo di scrittura di un pezzo comico?
Io nei miei pezzi, riuscendoci o meno, provo a sottolineare incoerenze e contraddizioni in cui cadiamo, provo a stratificare le cose. Quello che hai menzionato, ad esempio, è un pezzo superficialmente sulla camorra, che in realtà ha l'intenzione di contestare la macchina Stato. Dire che la camorra viene sconfitta se si applica lo schema della statalizzazione significa dire che la pubblica amministrazione non funziona, che la burocrazia è lenta. Il paradosso è questo e diventa logico proprio perché è paradossale. L'anno scorso portai a Zelig un pezzo sull'eruzione del Vesuvio che in realtà parlava di Covid. Lo spostamento dell'attenzione è un meccanismo satirico che secondo me è valido, andare a toccare punti nevralgici, scoperti, con delle immagini che colpiscano. Ma l'obiettivo, ci tengo a dirlo, resta quello di dire qualcosa, far arrivare messaggi, facendo ridere le persone.
Questo perché il comico non deve prendersi troppo sul serio, altrimenti si finisce per fare i politici. Tu citi il Movimento 5 Stelle nei tuoi pezzi, esempio di quella comicità che ha finito per prendersi troppo sul serio.
Il comico che si prende troppo sul serio e viene preso troppo sul serio è un'aberrazione, perché si arriva a credere che chi sta sul palco meriti più fiducia di chi si candida davvero. Il gioco di Grillo, noi siamo buoni e gli altri i cattivi, meriterebbero un discorso a parte molto più complesso, ma di base c'è proprio la dimostrazione di come la comicità funzioni come mezzo espressivo e comunicativo a tal punto da essere una cosa delicatissima e da tenere a bada.
Tu ti schieri quando sei sul palco?
Continuamente, il mio pensiero si capisce in maniera chiara, ma non darei mai indirizzo di voto, non solo perché sono il primo a non percepire appartenenza verso qualche partito specifico, ma perché la comicità, quando diventa politica, smette di essere comicità. Parliamo di persone che stanno sul palco, con un microfono, davanti a persone che pendono dalle loro labbra. Impazzire e sentirsi fenomeni è un attimo. Il comico è sempre un perdente, chi fa satira è sempre un perdente, dalla stessa parte di chi ascolta. Non è mai un profeta. Questo deve essere il patto con lo spettatore.
Hai detto di essere stato appassionato di Zelig. Quali sono stati i tuoi riferimenti?
Devo dire che il mio più grande riferimento comico è fuori Zelig ed è, in assoluto, Massimo Troisi. Quanto a Zelig, anche se non è bello fare nomi, credo che condividere il camerino con Mago Forest sia stata una cosa impagabile. Lo stesso Claudio Bisio è per me un riferimento di come si fa questo lavoro.
Per il futuro che progetti hai?
La mia intenzione è quella di proseguire con i live, che avevo messo un po' in stand by questa cosa. Ho il mio spettacolo che continuerò a portare in giro e che probabilmente prevederà una data a Napoli a inizio 2023, per poi partire con un tour in giro per l'Italia.
E poi Zelig, dove a quanto pare sei destinato ad essere punto fermo.
Così dice Bisio, ma io non ci credo finché non accade.