Coraggioso o sciacallo? Sul viaggio di Massimo Giletti in Ucraina e la puntata di Non è l'Arena andata in onda domenica 20 marzo c'è grande dibattito, incentrato principalmente sull'opportunità di questa eventizzazione della guerra e sul rischio di spettacolarizzare il conflitto, con immagini cruente mostrate senza censura.
Il conduttore di La7 non è nuovo a questo genere di polemiche. Solo sette giorni fa veniva contestato per aver invitato in trasmissione Povia, il cantante palesatosi come la sintesi perfetta della continuità tra le posizioni No green pass/no vax e quelle filo-russe, continuità che, a guardarsi intorno, pare sempre più evidente. Giletti ha sempre difeso il diritto, il dovere e soprattutto la necessità di dare voce a tutte le parti, anche quelle più estreme. Della verità di ognuno ha fatto il suo mantra, ha portato avanti la necessità di offrire uno spazio a chiunque vedesse la realtà in modo diverso come uno slogan. Lo ha fatto con il Covid e lo sta facendo con la guerra in Ucraina, a dispetto di tutti i rischi e gli scivoloni che questa linea comporta.
La sua scelta di partire per l'Ucraina e raccontare il fronte in prima persona è televisivamente interessante per due ragioni. Prima di tutto perché rompe la monotonia di un racconto televisivo del conflitto a rischio staticità dopo un mese circa. In seconda istanza perché la conduzione di un talk show dal fronte di guerra stravolge le dinamiche del dibattito classico.
La conduzione in esterna, che ricorda qualcosa di simile a quanto accaduto con presentatori e presentatrici in isolamento per Covid, dà paradossalmente più forza a Giletti, che detta con maggiore decisione il ritmo del dibattito proprio perché lontano, per giunta sul fronte di guerra, quindi più rispettato. Non che questo eviti le sovrapposizioni delle voci, le frasi urlate e la caciara dietro l'angolo alla quale tutti i talk show, chi più e chi meno, ci hanno addomesticati, ma l'impressione è che la conduzione sia più autorevole, quasi come provenisse dall'alto, più che da lontano. Aspetto, questo, pare aver contribuito a una maggiore salubrità del dibattito.
Le contestazioni all'approccio narrativo erano d'altronde inevitabili. Indugiare sui corpi martoriati è una decisione discutibile, così come lo è la gravità nei toni adottati dal conduttore, la tendenza a rimarcare i rischi nel fare un programma dal fronte di guerra a 60 anni appena compiuti, la sovrapposizione del sé rispetto allo scenario in cui sovente Giletti inciampa.
Altrettanto indiscutibile è lo scetticismo verso qualunque cosa Massimo Giletti faccia in Tv. Un pregiudizio evidente di cui lui stesso è conscio, che se in chiunque altro genererebbe imbarazzo e una certa ritrosia, in lui alimenta una curiosa forma di irrequietezza che lo induce a spingersi sempre oltre, con tutte le conseguenze che superare i limiti comporta, come quella di andare fuori giri. Lo fa in qualsiasi campo, da quello del Covid rendendo Non è l'Arena la casa di personaggi discutibili come il medico con il braccio in gommapiuma e il vicequestore No Vax sospeso; a quello della guerra, percependo prima degli altri la generale sensazione di adagio e abitudine del pubblico a certi temi percepita negli ultimi giorni. Giletti fa della rottura del codice televisivo la propria religione, come se il rispetto del codice stesso fosse cosa superata, o quantomeno stantia.
La generale diffidenza verso il mezzo ha ridotto ai minimi storici il valore del "saper fare televisione", come se la conoscenza dello strumento fosse nient'altro che sinonimo di sottomissione al compromesso degli ascolti o di corruzione morale. Giletti è e resterà un personaggio controverso, ma la sua conoscenza del mezzo televisivo è inoppugnabile, così come è evidente, ma questo solo agli occhi di chi scrive, l'ostinazione con la quale prova a guadagnarsi il consenso della critica di cui non ha mai beneficiato.