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Opinioni

L’ipocrisia dei social: odiano i talk show e così li tengono in vita

Orsini, Sallusti da Giletti, i siparietti di Mario Giordano. Se Twitter e Instagram non rendessero virali questi frammenti, criticandoli aspramente, ce ne ricorderemmo? Ecco perché sono proprio quelle piattaforme che odiano i talk show a produrre un circolo vizioso che legittima e istiga certi meccanismi televisivi.
A cura di Andrea Parrella
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I talk show televisivi non sono mai stati in crisi come adesso. Tanti, forse troppi, bistrattati, ripudiati, rubricati a simbolo di un modello e un'era televisiva che ha determinato una frattura apparentemente insanabile tra il mezzo di comunicazione e una consistente parte dell'opinione pubblica anagraficamente ascrivibile alla popolazione di mezzo, gli attuali 30/40enni, che non riconosce più credibilità al sistema informativo della Tv.

In questo contesto di sfiducia il Covid e la guerra in Ucraina hanno fatto il resto. Da mesi, ormai, l'agenda televisiva è scandita da fatti ed episodi discutibili che riguardano contenuti e impostazione di alcuni talk show, costretti negli ultimi due anni e mezzo a misurarsi con la spaccatura dell'opinione pubblica sui temi della pandemia e del conflitto. L'attenzione per il movimento No Vax, lo spazio concesso a posizioni filo-russe e a personaggi di dubbia competenza, la ricerca degli eccessi affinché ci sia scontro motivata con la necessità di dare voce a ogni posizione, sono tutti fattori che hanno gonfiato l'evidente ondata di disapprovazione verso questo genere di programmi.

L'inerzia ad evidenziare solo il peggio di questi format pare evidente, ma il dissenso non si alimenta per mezzo della televisione stessa, spesso accusata di essere autoreferenziale e parlare solo di se stessa e a se stessa, quanto più che altro grazie alle piattaforme social, terreno fertile per le coltivazioni intensive di ostilità alla natura di certi programmi.

Può apparire controintuitivo, ma sono proprio social network come Twitter e Instagram a tenere in piedi e legittimare i talk show. Oltre a un modello economico che regge e ne giustifica l'esistenza (costano relativamente poco e generano introiti per le emittenti), la mole enorme di chiacchiericcio, per lo più negativo, su questo genere di contenitori, si tratti di Piazzapulita, Cartabianca, le discutibili trasferte estere di Non è l'Arena, i siparietti di Mario Giordano, è un collante inconsapevole per la persistenza di questo modello televisivo. Criticare i talk show sui social, peraltro, pare essere pratica semplice e redditizia, se si osserva la voracità con la quale influencer di vario tipo si fiondano su questo argomento alla prima occasione utile: come sfondare una porta aperta, o sparare sulla croce rossa che dir si voglia.

La dimostrazione plastica si ritrova in un fenomeno che evidenziamo da settimane e che sta alla base dell'esistenza dei social, ovvero la viralità applicata ai frammenti di talk show. Un intervento particolarmente centrato di un ospite, una lite, qualcuno che lascia lo studio in segno di protesta, i talk show televisivi si prestano alla perfezione a questo effetto di parcellizzazione. Si pensi ai casi di Antonio Caprarica o di Alessandro Sallusti, nomi che nelle ultime settimane hanno fatto discutere per la loro presenza in alcuni spazi di approfondimento dedicati al conflitto. Il primo si è distinto per due interventi accesi che hanno facilitato il suo posizionamento "anti-orsiniano" sul tema della guerra, così come il secondo ha approfittato di due ghiotte occasioni per ritagliarsi uno spazio da eroe dei social, approfittando proprio dell'impopolarità cronica dei talk show.

Un andamento che non vale solo per i talk show, se si pensa all'insistente ricerca dell'effetto meme che riguarda reality show come il GF Vip e L'Isola dei Famosi, o people show come C'è Posta per te, indicativa di una logica che è di fatto essenza del connubio tra social network e televisione.

Va aggiunto che sui talk show si verifica un fenomeno riassuntivo che molto somiglia a quanto accade con le competizioni sportive: gli stessi frammenti virali diventano highlights di programmi dalla durata interminabile, tre o quattro ore concentrate in pochi flash che sono, in fin dei conti, tutto ciò che rimane di quel programma. Il resto finisce sotto una coltre che nasconde ciò che di buono, ma anche di cattivo, accade. E questa dinamica, che porta a un flusso di commenti e critiche difficilmente quantificabili e monetizzabili, istiga il concepimento dei talk show in funzione della ricerca di quei momenti efficaci, così come l'ingaggio di determinati ospiti che si prestano a questa funzione. Un circolo vizioso inesauribile che tiene in vita il sistema.

Il talk show è di per sé un formato televisivo ibrido, spiegava Corrado Formigli in un'intervista recente a Fanpage.it, ricordando che la nomenclatura non è casuale: serve il talk, ma anche lo show, quindi la coesistenza di due elementi apparentemente inconciliabili. Che però vanno tenuti assieme, dato che gli ascolti non piacciono ma sono un tema inevitabile, con operazioni talvolta equilibrate, altre decisamente meno. Ma cosa accade se è la domanda stessa a determinare quella struttura poi tanto contestata?

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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