Quando le risorse scarseggiano, tocca inventarsi qualcosa. Con questo spirito ci si avvicinava alla presentazione dei palinsesti Rai per la stagione 2023-2024, il primo vero atto ufficiale del nuovo corso della Rai segnata da una governance a trazione meloniana che doveva far fronte alla situazione complessa generatasi nelle ultime settimane, dopo che gli eventi di telemercato avevano interessato l'azienda solo per dei clamorosi affari in uscita: Fabio Fazio prima, Lucia Annunziata poi, Bianca Berlinguer infine. Tra cavalli di razza, addii che hanno impoverito l'azienda, checché se ne dica.
Ci si aspettavano dunque fuochi e fiamme, stravolgimenti, sterzate improvvise a destra, programmi dedicati a natalità e genitorialità (in linea con il nuovo contratto di servizio), segnali di quell'intenzione di raccontare un'altra parte del Paese cui la Rai non guardava, come l'attuale direttore generale Giampaolo Rossi aveva detto mesi fa, cui gli stessi Fazio, Annunziata e Berlinguer non sapevano guardare, volendo rincorrere la convinzione che l'addio di questi tre nomi non sia dispiaciuto poi così tanto agli attuali vertici dell'azienda.
Segnali di rinascita che, in tutta franchezza, si fatica a intravedere tra le proposte per la Rai della prossima stagione. I problemi dei grandi assenti sono stati risolti in parte: il combinato disposto di Report su Rai 3 e Il Collegio/La Caserma su Rai 2 al posto di Fabio Fazio, Monica Maggioni in sostituzione di Lucia Annunziata, lavori in corso per la serata del martedì di Berlinguer, visto il suo addio lampo, troppo recente per essere subito rimpiazzato.
Sul resto, tuttavia, c'è l'impressione di un rimasticamento generale che viaggia di pari passo a una clamorosa carestia di fantasia. Nei nuovi palinsesti della Rai non sembra esserci ombra di un guizzo, un'intuizione, una scommessa, una concreta novità sotto il profilo linguistico ed estetico, così come il recupero di grandi assenti dell'ultima stagione (qui vi raccontavamo della sparizione di Che ci faccio qui di Domenico Iannacone). L'impianto delle tre reti è rimasto pressoché identico, così come i titoli più altisonanti e le fasce di maggiore successo, legittimamente riproposte perché la televisione vive di abitudine e non può permettersi troppi strappi. Per questo appare sensata una riproposizione del daytime in una chiave molto simile alla precedente (l'attuale direttore Angelo Mellone era d'altronde vicedirettore nel precedente corso).
Probabilmente sarà un'esagerazione di chi scrive, ma ad eccezione di Filippo Facci (I Facci Vostri), il ritorno di Max Giusti con uno show, lo sbarco su Rai2 di Bianca Guaccero e Peppe Iodice in prima serata, il ritorno di Luisella Costamagna in seconda e una prima serata a Nunzia De Girolamo, nemmeno l'ombra di un approccio da vivaio che risponda alle carenza di risorse e il tetto dei compensi che mette la Rai fuori mercato e obbliga al ragionamento dei talenti da coltivare in casa. Se qualche nome in questo elenco è stato dimenticato, è certamente una colpa di chi scrive (che è pronto a scusarsi) ma anche un dato significativo della determinazione con cui sia stato sostenuto ai palinsesti.
Si rimpiange addirittura la scorsa stagione, che pure non è classificabile come trionfale, nata con l'obiettivo dichiarato di rilanciare Rai2. Esperimento tutto sommato riuscito se si guardano i risultati di Francesca Fagnani, Stefano De Martino, Alessandro Cattelan e Alessia Marcuzzi.
Certo, qualcuno dirà che tra le "novità" sopra citate sia stato dimenticato Pino Insegno, simbolo assoluto di questo nuovo corso, collettore di tutti i mali della Rai meloniana e un po' anche capro espiatorio. Ma va anche detto che Insegno, oltre a non essere un parvenu della televisione, un principiante piazzato lì senza alcuna ragione, era già messo a bilancio da mesi, sin da quando questo governo andava formandosi. Sorprendersi per un access prime time su Rai2 (Il mercante in fiera) e il preserale di Rai1 (L'Eredità, con lui che aveva già fatto Reazione a Catena) significa essere ingenui e non capire che il problema della nuova Rai del prossimo anno, ammesso che un problema ci sia, non è Pino Insegno, ma il fatto che di "nuovo" ci sia poco o niente. Soli 53 giorni, quelli dall'insediamento della nuova governance. La risposta sarà certamente questa e forse anche legittima, così come si è legittimati a credere che qualche sforzo in più fosse possibile.