Corrado Formigli: “La guerra non è come il Covid, il talk show deve dare spazio a idee diverse”
In questa stagione Piazzapulita è diventato un riferimento per i talk show italiani. Prima che il Covid venisse spodestato dalla guerra come tema dominante, ha disegnato meglio di ogni altro concorrente il profilo del mondo No Vax, valorizzando a pieno anche il lavoro di altre testate come accaduto per l'inchiesta Lobby Nera. Con l'invasione della Russia in Ucraina è cambiato tutto, ma il talk di La7 ha dettato comunque l'agenda, costringendo il pubblico televisivo a confrontarsi con una pluralità di opinioni, lì dove nelle prime settimane di conflitto pareva essercene solo una possibile. Abbiamo intervistato Corrado Formigli alla vigilia della puntata di Piazzapulita del 31 marzo, segnata dal ritorno di Michele Santoro, che ritroverà proprio Formigli, inviato dei suoi programmi storici.
La guerra in Ucraina ha scompaginato le nostre vite e, di conseguenza, il racconto televisivo.
È così, ci siamo dovuti abituare a questo cambio repentino. Mi piacerebbe essere fisicamente sul fronte, ma non riuscirei a tornare per la puntata di Piazzapulita.
Non ha mai pensato a una puntata condotta dal fronte, come fatto ad esempio da altri colleghi?
Io credo che il collegamento in esterna debba portare un valore aggiunto e oggi quel valore aggiunto è il reportage dai luoghi che non riusciamo a raggiungere e conoscere, risvolti della guerra che non sono stati ancora mostrati. Penso che oggi il ruolo di un conduttore sia quello di stare in studio e far lavorare i propri inviati da lì. Trovo meno interessante l'idea di andare lì per dire di esserci. Qualora dovessi andarci, mi piacerebbe fare qualcosa che gli inviati non sono stati in grado di fare, prendermi anche dei rischi che non mi sentirei di far correre ai miei inviati. È il motivo per cui non mi è venuto in mente di partire, ma è la mia linea sulla guerra, fermo restando che ognuno ha la propria sensibilità e lo rispetto profondamente.
In diretta dalla guerra come inviato lei ci è stato, fu un momento importante per la storia della televisione.
Partecipai alla diretta sul ponte Brankov, nel 1999, come inviato di Moby Dick di Michele Santoro da Belgrado. La diretta dalla guerra, per la mia cultura televisiva, assume un senso profondo quando fa parte di una campagna e vuole dire qualcosa di specifico e importante. Quella era una diretta schierata contro le bombe NATO su Belgrado, stare su quel ponte significava dire che la città non doveva essere più bombardata. La cosa aveva un valore politico, l'informazione prendeva una posizione.
E Michele Santoro sarà ospite della puntata del 31 marzo di Piazzapulita, vi ritrovate dopo 11 anni.
Sono felicissimo di ospitarlo dopo tanto tempo, di nuovo in trasmissione da me. Per me è una grande soddisfazione, abbiamo entrambi una forte sensibilità sul tema della guerra.
Oggi più che mai il talk show è un genere bersagliato da critiche in cui si sbaglia a prescindere. Ha fatto pace con questa consapevolezza?
I talk show sono sporchi, brutti, cattivi, odiati, usati come riferimento per tutto ciò che non si debba fare, ma continuano a dettare l'agenda dei giornali e generare discussione. Da 15 anni si dice che i talk sono morti, mentre fanno ascolti eccellenti se si considera che sono tantissimi. È importante chiarire che il talk show è un genere televisivo che si regge su alcune regole fondamentali: può cambiare il mix di elementi, ma un punto invariabile è che si basa su un confronto di idee differenti e sul tentativo di dare al pubblico in maniera fruibile e accattivante gli ingredienti e gli elementi per farsi una propria idea.
Da qui nasce l'esigenza di avere personaggi come Alessandro Orsini?
Non solo lui, ma tutte le altre persone con una posizione simile oppure opposta. I critici facciano pace con questa cosa, i talk show devono garantire una pluralità e farlo in modo vivace. Il genere, fino a prova contraria, si compone di due parole: talk e show. Sono anche stufo del fatto che il talk show sia il benchmark della negatività. Quando Alessandro Orsini diceva cose che piacevano di più, era bravissimo e le università chiamavano le redazioni dei talk perché partecipasse. Ora che è contro il mainstream non va bene.
E il punto non è essere d'accordo con lui o meno.
Assolutamente, io sono in disaccordo con molte sue posizioni, ma non è questo il punto. Noto che da quando Orsini dice cose che non piacciono diventa un appestato, i talk show fanno schifo a mandarlo in onda, ma ci si dimentica che la cattedra a Orsini l'ha data la LUISS, la direzione di un dipartimento gliel'ha data una delle università più prestigiose d'Italia, non Piazzapulita o gli altri talk show.
Come per il Covid, il tema guerra ha i suoi personaggi rappresentativi in Tv. C'è differenza tra questi ‘bestiari'?
C'è una differenza enorme, il Covid imponeva di inchinarsi alla competenza, perché la scienza noi non la conosciamo. Io non so come sia fatta una proteina Spike e non capisco come agisca un vaccino e come interagisca con tutte le funzioni vitali dell'essere umano. Ma il tema della guerra e della pace non è solo per addetti ai lavori, io questo lo rifiuto. Un filosofo non può pensare a cosa sia la guerra? Un giornalista che ha seguito conflitti non può parlare di questi temi? Chiaro che ci affidiamo agli esperti per capirne sfumature e risvolti, ma per essere pacifisti o interventi non c'è bisogno di essere laureati in relazioni internazionali e studi strategici. Mentre se il vaccino funziona o meno, è uno scienziato a poterlo dire.
Una generale analogia tra mondo No Vax e filo Putin, invece, è plausibile?
Che ci siano gli stessi personaggi che prima erano contro il vaccino e oggi sono contro la guerra è cosa ricorrente, ma questo secondo me ha a che fare con la ricerca di un ruolo a tutti i costi e di una fazione politica. C'è sempre un pezzo di paese che non ci sta a prescindere e usa grandi fatti per poterlo manifestare. Tuttavia trovo insopportabile dovere catalogare per forza le persone e incasellarle in uno schieramento. Questo è effetto di una barbarie, noi siamo affetti da un tribalismo politico per cui se tu obietti delle cose agli americani sei la quinta colonna di Putin. Il nostro programma prende le sberle dagli atlantisti perché ospitiamo Orsini e dai veri putiniani perché facciamo capire che siamo a favore degli armamenti.
La credibilità di una posizione "non mainstream" è forse delegittimata anche da alcuni personaggi che la perorano e che vengono invitati in televisione.
Chiaro che ci siano in televisione anche loschi figuri che perorano la causa di Putin, ma ci sono anche accademici che hanno un pensiero laterale. Noi abbiamo avuto Rovelli, che è uno degli intellettuali più raffinati del nostro paese e non credo sia anche solo pensabile che lui prenda soldi dal Cremlino. Torno sull'esempio di Orsini per dire che magari lui potrà avere tratti singolari, che si fa trasportare dall'emotività e un po' dal suo ego, ma dice cose che sono frutto di uno studio. Definirlo la quinta colonna di Putin è una roba insopportabile e da querela.
Sulla possibilità di una linea anticonformista in televisione Piazzapulita ha fatto da apripista. Come valuta il fatto che altri talk siano venuti a ruota?
Se gli altri seguono la nostra strada, penso a Orsini, Crisanti, Antonella Viola, per me è una soddisfazione. Poi resta un problema, quello dell'effetto marmellata che nei talk è complicato. Se tu prendi un personaggio, lo valorizzi e gli altri lo prendono, a un certo punto devi farne a meno perché è saturato. Ci sono pochi talk che lottano per una propria originalità, mentre altri si adeguano. Quindi si crea il mercato degli ospiti, un mercato come un altro, per cui si tenta di accaparrarsi in esclusiva alcuni ospiti particolarmente ricercati in un determinato momento. Non tutti hanno lo stesso budget e la stessa credibilità e io penso che a un certo punto sia anche l'ospite a dover scegliere quale programma lo valorizzi di più. La sola cosa che mi dà fastidio è quando l'ospite reputa un programma come un altro e si preoccupa solo della collocazione o del cachet.
È un riferimento ad Orsini?
Non parlavo di lui, che comunque non ci sarà questa settimana, ma penso tornerà nella prossima. Niente di personale, anche perché credo di essermi speso per primo in sua difesa e in difesa della necessità e legittimità di pluralità di posizioni.
Come considera la questione del suo contratto con Cartabianca bloccato dalla Rai?
La trovo una cosa surreale perché mi pare assurdo che si decida di pagare o non pagare un ospite in base a quanto ti piaccia quello che dice. Per me inaudita anche la lettera di censura della LUISS a Orsini. Io rifiuto l'idea che ci debba essere un'uniformità di vedute all'interno di un ateneo. Non sto parlando di un professore che perora il negazionismo o l'apologia del fascismo perché rientriamo nel campo del reato. Ma l'opzione pacifista o interventista sono sempre appartenute al pensiero dell'accademia e io mando mio figlio all'università proprio perché c'è questa concorrenza di idee. Un docente non parla a nome dell'università per cui lavora, ma a nome suo.
La guerra in Ucraina occupa ogni spazio. Si preoccupa per la necessità di diversificare il racconto e parlare anche di altro?
In questo momento io non sento un altro tema, penso che ci troviamo di fronte a un fatto epocale enorme, direi che siamo oltre il Covid e penso che ci troviamo molto più impotenti che in quel caso. Di fronte a questa guerra noi cittadini ci sentiamo disarmati e crediamo di non avere in mano il nostro destino. Questa angoscia è così legata al rischio di allargamento del conflitto, all'uso delle armi nucleari e chimiche, che gli stessi temi economici legati alla guerra, come l'aumento dei costi energetici, faticano a trovare spazio nei talk. Le persone in questo momento vogliono capire cosa stia succedendo e cosa rischiamo. La paura è immediata. In queste settimane non vedo spazio per altro. Il vantaggio è aver recuperato le sensibilità per gli esteri, una cosa sempre sottostimata e di cui, invece, noi abbiamo provato sempre ad occuparci al netto dell'agenda.
C'è un nutrito fronte di opinione che dissente rispetto alla scelta di La7 di proporre "Servant of people", la serie Tv di Zelensky. Come la vede?
Mi sembra una scelta molto intelligente e opportuna. Mai come in questo caso fiction e realtà si guardano e si toccano e questa serie è la biografia di Zelensky, un caso incredibile mai successo prima, di un attore che recita una parte che poi interpreterà nella realtà. Ci dice anche molto di questo personaggio che era passato con grande disinvoltura dal set cinematografico alla presidenza e, comunque la si pensi, stia interpretando con grandissimo coraggio questo ruolo. Ha una capacità comunicativa enorme ed è evidente che lui, rispetto ad altri, si pone tantissimo il problema di come appare, comunica, di come si veste, come parla. Mai come adesso la comunicazione è parte integrante della resistenza.