Il patatrac è arrivato in cinque minuti, o poco più. Tanto è bastato a Teo Mammucari per abbandonare Belve, lo show di Francesca Fagnani che ha fatto dell’intervista affilata e della tensione narrativa il suo marchio di fabbrica. Un colpo di scena clamoroso, certo, ma anche una dinamica inevitabile quando si gioca con un personaggio come Mammucari, un uomo che da sempre sfugge alle etichette e alle gabbie, comprese quelle dorate della narrazione televisiva.
Il rischio di una narrazione imposta
Partiamo da un dato di fatto: Belve è un programma che vive di storytelling. La sua forza – e, in casi come questo, il suo limite – sta nella capacità di cucire addosso all’ospite una narrazione potente, spesso fondata più sulle opinioni, sugli editoriali, sulle vecchie interviste (alcune anche vecchie di decenni) e, perché no, anche sul “sentito dire” che su un reale confronto con il personaggio. Ed è qui che Teo Mammucari ha messo a nudo il punto debole del format: quando la narrazione non corrisponde alla persona – ma anche quando la persona non gradisce la narrazione – il rischio è che tutto si sgretoli.
Francesca Fagnani, va detto, gioca bene le sue carte. È pungente, ironica, e capace di sfruttare al meglio la sua posizione privilegiata all'interno di un format che è ritagliato su di lei. Ma per affrontare Mammucari serviva un approccio diverso, uno che non si limitasse a esplorare il suo passato o a ripescare opinioni altrui, ma che invece entrasse nella complessità di un uomo che è sempre stato molto più della sua carriera in tv. Mammucari, del resto, ha costruito il suo successo sulla capacità di spiazzare, sulla volontà di essere sempre un passo avanti, anche rispetto a chi pensa di poterlo incasellare. Il format è lui, per citare Andrea Parrella che ne ha scritto su Fanpage.it.
I limiti di Belve: un format che sembrava inattaccabile
E allora, provando a mettersi nei panni dell'avvocato del Diavolo, anzi della Belva, Mammucari ha dimostrato non solo di essere fedele al personaggio che è – irriverente, libero, imprevedibile – ma anche di aver messo a nudo la fragilità di un format che, pur straordinariamente efficace, ha i suoi limiti. Limiti che sono anche del pubblico. Non siamo forse abituati allo schema della Fagnani? In fondo, perché guardiamo Belve? Siamo lì, sul divano, a vedere come farà l'ospite di turno a rimenere in piedi a quella sassaiola di domande. All'apparenza sembra tutto costruito su un terreno aperto e dialogico, ma in realtà rigidamente orchestrato attorno alle frecce all'arco di Francesca Fagnani. E il pubblico accetta di buon grado questa finzione perché partecipa al gioco non come osservatore neutrale, ma come tifoso. In questo schema, il programma e il pubblico condividono lo stesso limite: un’adesione complice a una narrazione che prevede sempre e comunque il trionfo della "domanda". Ma cosa succede quando una "belva" decide di non stare al gioco? Il sistema si incrina. L'obiezione che può arrivare a questo ragionamento è circa le regole d'ingaggio del programma. Banalmente: se vai lì, sai cosa troverai. Ma non è una ghigliottina, non è un patibolo. Ci si può ritirare, come Mammucari ha fatto. Belve, al momento, gode di una popolarità consolidata, quasi intoccabile, ma la vera belva è questa. Quella che non si riesce a domare. D’altronde, nella corrida non vince sempre il torero. Stavolta, nel gioco dell’intervista, non ha vinto chi fa le domande.
Il revisionismo su Libero: "quello della valletta sotto la scrivania"
Dalla gogna al killeraggio del personaggio, il passo è ovviamente brevissimo. “Mammucari è nato in un programma dove la donna era in una teca di vetro sotto la scrivania”, scrive Selvaggia Lucarelli, ma non solo lei, tirando fuori il suo primo grande successo, Libero. Quella "valletta sotto al tavolo" – ironia della sorte: era proprio Flavia Vento – era però una satira al vallettismo imperante di quegli anni (era il tempo delle letterine di Passaparola, per dirne una; o delle professoresse dell'Eredità). Nel programma si giocava su quella rappresentazione per smontarne i paradossi. Dopodiché, si dimentica che quel programma è stato ideato da quel genio di Giovanni Benincasa e adesso si fa passare la scelta della valletta sotto al tavolo come se fosse responsabilità del conduttore. Siamo al revisionismo. Mammucari, invece, meriterebbe una medaglia per il corto circuito che ha creato ieri. Teo Mammucari è stata la più belva tra le belve, una mossa quasi marinettiana. Gradiranno quelli che hanno voluto la mostra sui futuristi? Chissà.