Malati terminali, senzatetto, AIDS, pedofilia: sono solo alcuni dei temi toccati da Ricky Gervais nel suo ultimo spettacolo, Armageddon, disponibile su Netflix dal 25 dicembre. Come era già accaduto per lo show precedente del comico britannico e per altri spettacoli di stand up comedy pubblicati da Netflix, ultimo quello di Dave Chappelle, un moto di proteste si era sollevato solo guardando di sfuggita il trailer di Armageddon. La sua pubblicazione completa non ha fatto che ingigantire la rabbia di categorie che si sono reputate offese per i contenuti dello spettacolo, chiedendone la cancellazione.
Grazie alla incontestabile abilità di scrittura che lo contraddistingue, Gervais disegna alla perfezione lo spettacolo che ci si attendeva, pagando con un pizzico di prevedibilità delle tematiche, ma non senza fiammate travolgenti. Nel corso del suo monologo dedica vari passaggi al tema delle nuove sensibilità che influiscono sul linguaggio comune. Parla della cultura "woke", quella sostanzialmente sostanzialmente progressista, contestando la deriva puritana e punitiva di questo movimento, contraddittoria rispetto alle caratteristiche originarie alle quali lui si sentiva affine. Gervais spinge spesso il pubblico verso quella condizione di confine tra l'esilarante e il disturbante, tendenza che caratterizza da sempre il suo repertorio e oggi più che mai, spingendo sull'acceleratore proprio quando c'è da parlare di disabilità, persone con ritardi e altre categorie sociali più deboli.
Ridere è la manifestazione umana in cui concorrono educazione e istinto, è il momento in cui viene fuori chi siamo ma che fa emergere anche quello che razionalmente nasconderemmo. È così che ci si può ritrovare a sorridere anche per freddure che corteggiano con prepotenza l'atrocità. Nessuno come Gervais sa sollecitare questo tema di incontinenza della risata e metterla al centro dei suoi show ed è forse per questo che è diventato un mito generazionale, riferimento di questa era d'oro della stand up comedy fuori dai confini del mondo anglosassone, con tutti gli effetti positivi e negativi (omologazione e standardizzazione) che comporta l'effetto mainstream.
Da tempo la sua autorità viene però messa in discussione proprio dalle prese di posizione di Gervais sul tema del politicamente corretto, qualunque cosa significhi questa definizione. Lo stand up comedian contesta il clima di caccia alle streghe che prolifera e che rischia di minacciare la libertà d'espressione, rendendosi testimonial di quel motto, non si può più dire niente, mai così inconsistente come nel suo caso. Sul palco Gervais può dire, e infatti dice, di tutto. Il comico britannico, dal suo pulpito, può fare esattamente ciò che vuole, a dimostrazione che non c'è alcuna censura, almeno nei suoi confronti. Cosa ancora più paradossale è che le sue affermazioni sarcastiche in odore di transfobia, o derisorie verso il tema della fluidità, vengono pronunciate in uno spettacolo reso disponibile da quella piattaforma, Netflix, che fa della difesa di questi una colonna portante, di fatto un asset strategico. Se certe libertà espressive vengano concesse a Gervais per la sua condizione di evidente privilegio, o perché in effetti la censura esiste solo nella testa di chi vede minacciati i propri privilegi, è davvero difficile da capire. Anzi, verrebbe da dire che è quasi inutile.