C'è stato un tempo in cui i Fichi d'India erano l'espressione più autentica della risata generosa, anche facile ma senza che questo comporti alcun tipo di diminuzione. C'è stato un tempo in cui i Fichi d'India riempivano le sale, sbigliettavano ed entravano – volente o nolente – nelle discussioni di tutti, specialmente durante le feste di Natale, a tavola come nei salotti, parlando con quello zio che proprio non riesce a smettere di ridere o con quel fratellone un po' più snob che a un cinepanettone preferiva sempre – preda dell'esterofilia – le commedie americane; anteporre "Una settimana da Dio" a "Natale in India", "What Women Want" a "Merry Christmas".
Eppure i Fichi d'India erano tanto amati. Il momento in cui lo sfortunato maledetto evento ha tagliato di netto la possibilità che Bruno Arena e Max Cavallari tornassero in scena è conciso con il momento in cui la nostalgia per tutte le risate, tutte le chiacchiere, tutte le digressioni sul valore assoluto della loro comicità – alto, altissimo, basso o bassissimo, a chi importa? – aveva già preso il sopravvento. La morte di Bruno Arena ha definitivamente trasformato quelle scene, quei tormentoni, in un ricordo. Il pubblico non a caso è sovrano e si è riversato come un'allegoria sull'ultima foto che ritrae i Fichi d'India insieme. È tutto pubblico pagante sotto forma di un commento. È celebrazione di un'amicizia. È confessione: "Mi avete sempre fatto ridere. Mi avete aiutato a trovare il sorriso anche nei momenti tristi".
Ché alla fine a questo servono i comici, anche quando se vivono colpiti dall'eterno pregiudizio sulla commedia in generale, lo stesso pregiudizio che c'è in tutte le cose. Chi nella vita cerca sempre una posa, cerca sempre di darsi un tono, difficilmente ammetterà agli altri e a se stesso di aver lasciato andare una risata, anche solo per errore, guardando quei due folletti strani avvolgersi le mascelle con quel "amici, ahrarara".